Intervista a Jago. “Per me il corpo è un elemento grammaticale”

di Davide Speranza

Se qualcuno è interessato agli elementi biografici di Jago, può andare a leggerseli sul sito ufficiale jago.art. A noi, qui, interessava entrare nella filosofia umana di uno degli artisti italiani più discussi nell’ultimo periodo. Uno che scolpisce l’emerito papa Ratzinger senza veli, che riscrive le velature di un Cristo sostituendole con quelle di un bambino. È stato ancora lui a deporre, nel mezzo di Piazza Plebiscito, un neonato in catene, schiacciato sui ciottoli vulcanici di Napoli.

Basterebbe guardare i suoi video con cui racconta, per immagini, le fasi creative delle opere. In particolare, quel Facelock – girato con uno stile vicino al regista ceco Jan Švankmajer – dove compare un uomo-bimbo, nudo, concentrato sul suo smartphone, costipato dentro una pressa. A Jago interessano i corpi, la materia viva. Da qualche tempo ha scelto come sua casa la città partenopea. Ha installato uno studio-laboratorio nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, alle porte del Rione Sanità.

Un edificio sacro tra i più preziosi del posto, della cui progettazione interna si interessò Ferdinando Sanfelice (ma la sua proposta di una pianta a stella, invece che a croce latina, non passò). Sul portone del tempio barocco è comparso il ritratto di Jago, come una firma, un segnale che lui è dentro, ci abita, ironia iconografica (e iconoclastica) che ricorda la sacralità e la sconcezza dell’arte. Quando si apre quella porta, fatta di legno consumato da graffi e bestemmiato da scritte scugnizze in vernice bianca, ti accorgi che cammini sulla polvere. La pavimentazione ne è ricoperta. Nel mezzo della navata, la Pietà sta prendendo forma. In fondo, laddove prima doveva esserci l’altare, ora c’è un tavolinetto con una sedia, e una poltrona color acqua marina. Jago è alle prese con marmo, strumenti, interviste, conference call. La sua enorme bottega d’arte napoletana si esprime con il tempo dell’oggi, ma per un attimo sembra essere dentro l’epoca rinascimentale, quando i maestri dipingevano e scolpivano tra le mura degli edifici cristiani.

Perché hai scelto questa città?

Sicuramente mi sento adottato, un luogo è un’opportunità. Napoli è un’opportunità nella misura in cui è terreno fertile, in cui è ancora possibile seminare, una caratteristica molto rara oggigiorno. Noi facciamo esperienza di città sature, fatte, complete. Napoli invece continua ad avere dei margini, degli spazi per seminare, per aggiungere delle cose. Questo è un valore, una ricchezza enorme, e quindi mi lascio piacevolmente condizionare da un luogo, perché il luogo è il genio. Posso partecipare alle dinamiche del posto ma poi mi arricchisco. E se capisci che un determinato luogo può fungere da moltiplicatore, da amplificatore delle tue capacità e far emergere nuovi lati di te che ti piacciono, questa è una grande cosa. Napoli è il luogo giusto dove stare in questo momento della mia vita.

Come sta influendo nel tuo processo creativo?

Totalmente. Quando sei circondato dalla bellezza succede che quella bellezza che vedi è l’immagine della bellezza che possiedi. Per esempio, come può influire stare in questo studio? Anche questa intervista è diversa da una fatta in un altro posto, perché vive del condizionamento dell’ambiente. Tengo conto di questo. E Napoli partecipa alle cose che faccio.

Come nasce lo stare in questo luogo e la collaborazione con realtà locali?

C’è un entourage di persone innamorate che partecipano, riconoscono nel mio gesto qualcosa che li riguarda e riguarda anche la legge dell’offerta. Uno che chiede può rimanere nella dimensione del “chiedere”, ma chi offre è molto più probabile avrà qualcosa indietro. Io offro. Se ho qualcosa da dare, godo nel dare. Qui trovo persone a cui piace restituire e con le quali ci siamo capiti. Nasce dall’operazione del “Figlio Velato” che è stato posizionato qui poco distante, nella Cappella dei Bianchi all’interno della chiesa di San Severo fuori le mura. Nel cuore del quartiere Sanità. Mettere un’opera in un museo è facile, perché quello è il luogo dell’arte, tutti sanno che in un museo trovi opere d’arte. Ma se voglio valutare il valore della mia opera, prova a metterla dove nessuno andrebbe mai. Se riesci a portare lì le persone, forse puoi capire se il tuo gesto ha un valore, non per forza l’opera d’arte, ma il tuo gesto… se quello può diventare un simbolo, se può partecipare al rinnovamento delle dinamiche sociali, se ne può generare di nuove.

Sembra che questo concetto ti stia molto a cuore.

Questa è la cosa che mi interessa. Da lì si instaurano delle relazioni, perché un’opera la metti in un luogo, e il luogo è fatta delle persone che vivono in quel posto. E quindi capisci se sapranno amarla e il significato dell’opera stessa muta perché si arricchisce del contesto, e il contesto fa l’opera. Quell’opera sono le persone che vanno a vederla. Insomma diventa un percorso incredibile al quale tu partecipi semplicemente. Hai fatto un gesto, per quanto difficilissimo sia stato, perché hai cambiato vita, sei andato a New York (l’artista si era recato in un primo momento nella città americana per realizzare l’opera, ndr), poi sei tornato indietro, l’hai riportata. Costi, avventure, sogni. E poi la porti qui e scopri altro di te. Non so perché mi trovo in alcuni luoghi o in altri. Accolgo le cose che arrivano con il beneficio della conoscenza.

Chi ti ha accolto alla Sanità?

Padre Antonio Loffredo è stato il motore propulsivo di un meccanismo di riqualificazione importantissimo assieme a Fondazione San Gennaro e tutti quelli che intervengono e partecipano: Officina dei talenti, Coop4Art, La Paranza e le altre situazioni culturali che gemmano e che a pioggia accompagnano questo flusso creativo. Persone con le quali condivido un percorso, loro stessi per primi muovono e sono rivolti a muovere quelle dinamiche di rivoluzione sociale. Che poi non è neppure riqualificazione, ma sottolineatura del bello. Di solito quelli che vengono qua devono parlare delle solite cose, delle cose brutte, delle cose che non vanno. Ma sono molte di più le cose che vanno. C’è talmente tanta bellezza qui. Alla Sanità le persone sanno che è un posto magnifico. Loro lo sanno. È una cosa molto rara.

Una cosa rara e forse diventa luogo di battaglia per chi vuole conservarla questa fetta di città…

È chiaro. Però si va oltre al senso di conservazione, che invece è un imperativo di altri luoghi come Roma, che sono saturi, dove è stato distrutto molto, pensa a San Pietro. Non puoi aggiungere nulla, solo roba di una certa impermanenza si può fare. Nascono mostre che iniziano e finiscono, ma niente che diventi più simbolo. Qui invece no. Qui non solo c’è conservazione e desiderio di riqualificazione, ma anche di aggiungere. E questa è una cosa unica.

Andiamo sul messaggio. Oltre al punto di vista estetico, dietro alle tue opere vedo potenti sottotesti. Il tuo processo creativo racconta l’umano. Un umano senza storia, come se stessi raccontando sotto pelle un dolore, un sentirsi incatenato perenne, una tragedia. In che modo ti avvicini all’umano? Anche inconsciamente…

Be’ se è inconscio, lasciamolo lì. Altrimenti sveliamo una parte di mistero e ci rimarrebbe male Mallarmé. Diciamo che non ho nessuna necessità di poter aggiungere niente in più rispetto a quello che ho fatto. Tu vedi quello che vuoi. Le parole che ti dico le riempi dei tuoi contenuti, dei tuoi significati. Mi limito a lasciare una cosa così com’è, posso parlare delle mie motivazioni, ma significherebbe chiudere una porta, avendo voce in capitolo. Significa chiudere una porta dell’astrazione all’altro. Io invece voglio aprire le porte. Sono porte che non posso aprire ma l’altro sì, io devo creare l’attenzione, come un dito che punta.

Ti senti portato alla narrazione della carne umana?

Anche l’elemento umano del corpo… mi piace utilizzarlo come elemento grammaticale. Il mio vocabolario del corpo. Veicolo attraverso il corpo. È perché rivolgendomi a una collettività di persone e facendo le cose per gli altri, so che fra 500 anni probabilmente, quando vedranno la mia opera, continueranno a riconoscerla. Se invece facessi una cosa legata agli usi e costumi del momento, farei leva su una retorica fine a se stessa, utile magari per il momento ma che svanisce nel tempo. Il corpo partecipa a tutto questo. Supera la prova del tempo. Un corpo è un corpo. Il tentativo di continuare a comunicare sempre allo stesso livello, essere sempre contemporaneo. Se ti spogli di tutta la retorica potrai essere sempre contemporaneo e potrai comunicare alle persone di ogni tempo. Cosa che non riesco sempre a fare.

Il Figlio velato, la Pietà… come se volessi rinnovare un linguaggio che già c’è stato…

L’arte, se esiste un’arte, è un linguaggio. Non è che Bernini non ha fatto il David perché prima l’ha fatto Michelangelo. È una parola, quella. E tu la esprimi con la tua intonazione, con la tua vibrazione.  Utilizzo un’immagine, quella immagine mi interessa per dire le mie cose, nel mio momento.

E questa Pietà contemporanea?

Storicamente la figura paterna è stata molto poco affrontata. Sono state fatte una miriade di Pietà, sempre una pietà materna. C’è la madre che accoglie, supporta, accompagna, che patisce. La figura maschile è sempre legata nella maggior parte dei casi al violento, allo stupratore, al malvagio. Che magari ci sta anche. Ma esiste un’altra categoria. I malvagi e gli stupratori sono i maschi. Poi ci sono gli uomini. Come ci sono le femmine e le donne. Allora un uomo sa essere anche un padre, può essere un padre. Mi interessa sottolineare il ruolo della figura maschile.

Come nasce il tuo rapporto con l’arte e la materia?

Sono stato accompagnato per tutta la mia vita dal fatto di dover sopravvivere. Quindi per me fare arte non è soltanto mettermi uno stemma sul petto per dirmi “sono un artista”. Io devo campare, arrivare a fine mese. Mi interessano altre dinamiche. Ho cercato di trovare delle soluzioni, non rinunciando a quello che amo e quello che amo è la creatività che si manifesta con la musica, nello sport, nelle relazioni, nella produzione di oggetti materiali. Sto in un percorso, sto andando avanti alla ricerca di una risposta, l’unica cosa che ha senso è il percorso stesso.

Dove sei nato e in che modo il luogo in cui sei nato ti ha formato?

A Frosinone, in Ciociaria. Cresciuto ad Anagni, in questo paese che ha una storia importante medioevale. A Frosinone ho fatto le mie esperienze sportive, giocando a calcio. Ad Anagni ho avuto il mio primo studio, una dimensione piccola, familiare, con l’esigenza di trovare un senso per poter essere indipendente. Anche con grande confusione. Vivi in un mondo in cui non sai come funzioni tu, non sai cosa vuoi fare nella vita, l’unica cosa che puoi ereditare è quella della tua famiglia, delle tue frequentazioni. Sono andato a scuola, ho odiato la scuola, la odio ancora, nella misura in cui non capisco perché devo andare a sentire una persona che probabilmente avrebbe voluto fare tutt’altro ma gli serve un posto fisso e l’ultima speranza che ha è andare dentro a una scuola dove porta le proprie frustrazioni. Questo la maggior parte delle persone che ho frequentato dentro la scuola, poi tanti altri sono diventati miei cari amici perché lo facevano con sentimento. Alcune cose mi sono entrate nel cuore e sono rimaste. E lo dico con profondo rispetto della professione del docente. Mia madre lo era, mia nonna lo era. So che significa essere professori, è una missione, non un lavoro, sottopagato tra l’altro. Oggi mi occupo di educazione, a New York, in Cina. Siamo nell’era dell’informazione e continuiamo a insegnare nelle scuole come se stessimo nell’era industriale. Dove tu devi diventare semplicemente un bravo dipendente. Tutto quello che ti viene insegnato è esser bravo a prendere le ordinazioni. Per me non funziona così. Il mondo è cambiato. Non esiste più il posto fisso, il lavoro è liquido. O utilizzi la creatività e questo viene insegnato nelle scuole oppure sei perduto e vivrai accettando la tua condizione naturale, vivendo nella speranza del fine settimana, del fine mese, del fine anno e alla fine ti ritroverai con la tua settimanella di vacanze e sembrerà che quella è l’unica boccata d’aria che ti puoi permettere. Sono cresciuto con questa evidenza davanti agli occhi. E non potrò minimante accettare che questo possa succedere nella mia vita perché è troppo più importante il tempo che abbiamo a disposizione. La ricchezza si misura in tempo, non in denaro. Il denaro ti permette di avere tempo, se sei bravo a generarlo facendo quello che ami, puoi aiutare gli altri e hai tempo per la tua famiglia.

Il materiale con cui lavori?

Marmo. Utilizzo marmi provenienti da ogni dove, in funzione dei miei partner. Per la Pietà sto utilizzando un marmo tra i migliori al mondo per la sua storia, che viene da Seravezza, da Pietrasanta, da quella zona della Toscana. Una partnership con un’azienda importante che si chiama Henraux. E poi i miei partner cinesi. Il Figlio velato è stato fatto con marmo americano, proveniente dalle cave del Vermont di proprietà di italiani, che sono la Red Graniti e la Vermont Quarries. Anche la scultura che è stata mandata nello spazio nella stazione internazionale è fatta con marmo americano, uno scarto del Figlio Velato. La maggior parte delle mie prime opere erano fatte con sassi del fiume, non avevo denaro per poter comprare marmo. Io sono cresciuto all’interno di un fallimento, la più grande lezione. Un fallimento economico. Il fallimento è la più grande possibilità della nostra vita. Chi sa fallire è rivoluzionario. Non esistono persone che non sbagliano, esiste solo chi sa sbagliare. Un bambino impara a camminare cadendo. In Italia è brutto dire “fallimento” e questo ci limita. Il fallimento invece è la più grande conquista.

La polvere di questo studio… che connessione c’è tra te e lei?

Dico sempre che faccio polvere e rumore. La polvere è la possibilità di lasciare una impronta. Quella polvere si poggia, come quando appena nevica. L’impronta è la testimonianza della nostra immagine materiale della nostra impermanenza. Si cancella anche lei. Per un attimo sembra che ci siamo perché abbiamo lasciato un’impronta. Ma poi anche quella… qualcuno la vedrà? Passerà? Dipende da che impronta lasci…

Per questo fai anche video sulle tue opere?

Quello è un discorso interessante, puoi raccontare il dietro le quinte, come partecipare alla gestazione, al parto. Una cosa che desideravo era vedere come si fanno le cose, come i grandi artisti hanno fatto le loro cose. Ho i mezzi per farlo. Magari fra 100 anni sarà materiale utile, magari andrà nel dimenticatoio. Però è un elemento in più. Parlo in tempi non sospetti, 15 anni fa, quando comprai lo smartphone apposta, per fare i video, non per telefonare. La testimonianza del fatto che anche la fase del lavoro è opera.  

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