‘I sandali di Elisa Claps’. Al Porta Catena Ulderico Pesce ha raccontato delle rose

“Non alza gli occhi e il viso non lo stacca dal suolo, sorda ai moniti come una pietra o un’onda in mezzo al mare; solo a tratti, volgendo il collo bianco, compiange con un gemito tra sé e sé suo padre, la sua terra e quella casa che abbandonò partendo a questa volta con l’uomo che le ha fatto oltraggio.”
Nutrice nella Medea di Euripide

Al Piccolo Teatro Porta Catena di Salerno è andato in scena I sandali di Elisa Claps, una rappresentazione di Ulderico Pesce, accompagnato in scena dalla fisarmonica di Pierangelo Camodeca, sulla storia tragica e misteriosa di Elisa, la ragazza sedicenne scomparsa nel settembre del 1993 il cui corpo è stato poi ritrovato nel marzo del 2010 nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità a Potenza. Le indagini avrebbero successivamente appurato che il giorno della sua scomparsa sarebbe coinciso con quello della sua morte, avvenuta per mano omicida di un uomo riconosciuto colpevole anche di un altro delitto consumato in Gran Bretagna nel 2002.

Il caso di Elisa Claps è però passato alla storia come un omicidio i cui connotati non sono stati del tutto risolti. Restano numerose le ombre intorno a una violenza sulla quale non è stata fatta luce in maniera completa. Ancora oggi emergono forti e fondati dubbi su depistaggi, atteggiamenti omertosi e altri nodi investigativi atti a coprire la verità dei fatti e le sue ragioni.

I sandali di Elisa Claps è una rappresentazione del dramma tutta fondata sulla parola. Laddove, attenzione, parola va intesa nel suo significato più profondo e originario. La parabola, la similitudine, il verbo del confrontare, di mettere a lato. E quindi la parola nasce accanto all’oggetto della sua stessa contemplazione. L’elemento sorgente si forma affianco a quello che lo ispira. Allo stesso modo l’impianto narrativo di Ulderico Pesce strazia in uno spartito di cronache che firmano una denuncia che colpisce l’impunità degli ignoti, o di alcuni noti, che in maniera diretta o indiretta si sono resi complici di una subdola omissione a favore di delitto. E nella rappresentazione di Pesce, non a caso, non è quel delitto a mostrarsi esclusivamente e forse primariamente colpevole della più ambigua immoralità, ma il suo intorno. Un intorno radicato in un labirinto di quinte tacitamente operose nella forma più occulta e inquietante delle posizioni di potere. Da quello di Stato a quello ecclesiastico, senza esclusione istituzionale.

Tuttavia il racconto dedicato a Elisa, esplicitamente ispirato agli statuti del teatro civile di narrazione, volutamente strutturato in un’essenzialità della messinscena fino a coscienti e funzionali forzature “attoriali”, non procede esclusivamente in un atto d’accusa rivolto ai tremendi irrisolti della vicenda, ma consegna un testamento spirituale il cui incanto nero non è rappresentato da un dolore ispirato dalla brutalità del delitto e dalla reazione astiosa nei confronti dell’azione criminale e dei suoi soggetti, ma è progressivamente determinato da una forma struggente di tenerezza.

La storia è raccontata dal padre di Elisa, un tabaccaio di Potenza che adora coltivare le rose. La sua narrazione coincide con una progressiva e commovente rivelazione del fine inevitabile a cui il suo insopportabile dolore conduce, fino allo svelamento di una voce, quella paterna, in presenza assenza, perché appartenente a una coscienza ferita per sempre, ma votata all’aspirazione di riunirsi nuovamente con la figlia amata. La morte causata dalla sua condizione e dalla malattia è il congedo liberatorio per un uomo che in realtà ha detto della sua esperienza già da scomparso, come in un intimo congegno proveniente dalla poesia sepolcrale.

Il violato parla al violatore, per una relazione in cui il corpo della vittima diventa lo spazio dove ospitare una sorta di luogo del ritrovamento, nella più amara ammissione di mancanza di bene per chi non sa e non è in grado di comprendere il dolore altrui. I sandali di Elisa Claps descrivono un meccanismo pedagogico misericordioso in cui a perire senza pietas non è l’azione delittuosa, ma il manto ambiguo e spietato dell’impunità di cui gode l’autore del gesto criminale. La garanzia a tutela della violazione. Un innesco di viltà che stabilisce i limiti di un’immoralità senziente, in condizione di sentirsi come inviolabile fino a una silenziosa e sfacciata provocazione davanti alla pronuncia di un disperato sagrato legittimato a metterne in discussione ogni valore.

Elisa Claps è la presenza invisibile di un martirio testimoniato dalle spoglie di un’innocenza murata nel tempo di disperata ricerca e brutale rivelazione. Rose nere fioriscono al di qua della parete e sopra la coscienza dei vili, mentre un roseto luminosissimo assiste gli interni che ricoprono quell’innocenza e la dignitosa e coraggiosa conduzione del padre verso l’unico epilogo che una così inimmaginabile attesa può riservare. “Dimentico tutto tranne che rivederti”, come scrive John Keats.

Non c’è sacrario, per quanto serrato esso sia nelle più profonde e inaccessibili cavità, sicuro e protetto da forme sottili e spietate di potere e di viltà umane, che possa nascondersi dal sentimento più alto che un essere umano riesca a provare per un altro essere umano. Soprattutto se questi sia la più amata conseguenza di sé. È la legge del bene tra le creature. C’è qualcosa che spinge, lentamente e fragorosamente, ben oltre le segrete oscure di quei sacrari. I fiori neri sono appassiti. Qualcos’altro è ancora lì.

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