‘Va trova’, il nuovo singolo di Luca Petrosino: “Sono vicino al genere dei cantautori”

di Davide Speranza

«Va trova ‘a chi ha pigliato, da te o da me… dal nostro cuore». È il cuore del nuovo singolo di Luca Petrosino, cantautore campano – originario dell’Agro nocerino sarnese, in quella terra incastonata tra Napoli e Salerno – che torna con una musica intimista per raccontare se stesso e il viaggio di un artista. Le cose preziose restano, devono essere coltivate, protette. Va trova sembra scritto per conservare i pezzi di un mondo andato in frantumi nel marasma del nuovo millennio. La paternità, il rapporto genitore-figlio, la vita da consegnare alle nuove generazioni e l’augurio di trovare la propria strada. È come leggere uno di quei racconti degli anni Settanta, dove la storia di formazione è il pretesto per raccontare un’epoca, un incontro generazionale.

Il video del singolo gioca con i colori acquerellati di un disegno. Una giornata estiva, il sentiero di un bosco. Un padre e suo figlio sulle spalle. I coriandoli di sole pomeridiano filtrano tra le foglie degli alberi, fino al tramonto. E loro due sempre insieme, sul sentiero. Il brano – scritto in napoletano e uscito a marzo – vede la partecipazione di Ottavio Gaudiano (contrabbasso), Andrea Barone (al piano, ma anche autore dell’arrangiamento e curatore della produzione allo studio Trees Studio di Enzo Siani), Guglielmo Esposito (percussioni), Peppe Del Sorbo (cori), Carlo Spista (armonica). Il singolo è parte di un album che Petrosino pubblicherà prossimamente , mischiando tradizione popolare e classica, rock e acustica, una fusion di sfumature musicali che ha trovato forma nel corso degli anni e ha la sua origine in quelli che furono i primi passi negli anni Novanta.

Luca, è particolarmente evocativo il titolo. Va trova sembra quasi una incitazione.

In effetti è una canzone che ho scritto tempo fa, dedicata ad un momento importante della mia vita. Pensavo di tenerla per me, ma poi ho deciso che poteva assumere un carattere universale. Quindi ho pensato di inaugurare questa mia nuova stagione di produzione con un brano intimista e acustico, così come gli altri che produrrò per questo nuovo disco che sto preparando. Sarà più vicino alla musica come canzone classica napoletana, farò molto uso di strumenti a plettro. C’è anche una collaborazione con l’accademia mandolinistica napoletana e col Maestro Mauro Squillante. Il testo ha preso ispirazione da un modo di dire napoletano. Va’ trova da chi ha preso. Ma ha un doppio senso, in questo caso. Vuol dire anche “vai e trova quel che vuoi trovare, prendi una tua strada e vivi il mondo”. Un testo semplice, non ha necessità di spiegazioni. In questo caso mio punto di riferimento nel songwriting è da sempre Vasco Rossi che si esprime sempre con parole semplici, concetti semplici. Il testo è in lingua napoletana. L’album avrà solo un brano in italiano, un testo che ha musicato Ottavio Gaudiano, contrabbassista con cui collaboro da un po’ di tempo, conosciuto durante i concerti di musica classica, nelle tournè di Bruno Venturini e all’accademia di Napoli. Il suo approccio con la musica è il mio stesso, anche se siamo di generazioni diverse. Eppure anche io mi sento molto anni Settanta, sono vicino al genere dei cantautori, rispetto al genere della new wave anni Ottanta o al rap moderno. Ricordo che gli mandai i testi captando subito la poetica delle mie parole. Nella musica c’è un ritmo nascosto che i musicisti bravi riescono a ritrovare.

L’essere padre ti ha cambiato come artista e come uomo?

La nascita di questa nuova vita che vedo crescere piano piano è straordinaria. A partire dai piccoli passi, dalle piccole parole, fino al raggiungimento dei primi obiettivi, il primo giorno di scuola, la bicicletta, una passeggiata sulla collina. Un percorso che è anche il riconoscersi e riconoscere gli atteggiamenti della persona con cui vivi e con cui ha fatto nascere questa creatura. Un’esperienza che ti completa e completa un percorso. Durante il covid, a casa, ho potuto vivere pienamente l’infanzia di mio figlio. Quel periodo, mi ha fatto comprendere quanto sia importante stare vicino ai propri figli e vederli crescere, sentire il loro calore, la loro voglia di autonomia e indipendenza che si manifesta già nei primi anni.

Tradizione popolare, ma anche rock, classica. Sei onnivoro. Come si evolve il tuo rapporto con la musica?

Ho avuto la fortuna di vivere in una famiglia dove c’era un pianoforte, e c’era mio padre che da poco aveva imparato a suonare la chitarra ed una folta discografia di musica classica. Col piano, cercavo le melodie sui tasti rifacendo le canzoni che mi erano entrate in testa, alcune arie d’opera come la marcia trionfale dell’Aida. Mio padre mi mostrava la chitarra. Avevo 11 anni circa. Poi ho iniziato a fare lezione da un maestro. La musica popolare è arrivata molto dopo, verso i 25 anni. In realtà ho cominciato con la musica rock, in un gruppo che si chiamava The Crazies, ovvero i pazzi, quelli che urlano. Esordimmo con Alessandro Ruggiero, Salvatore Falcone e Alessando Iannone, in piazza alla festa de L’Unità. Andavamo pazzi per i brani dei Nirvana, erano gli anni Novanta. L’unico pezzo diverso, Je so pazz di Pino Daniele. Kurt Cobain era un nostro idolo, quando morì fu un periodo di lutto, un momento nero per noi. Mi rivedevo nei suoi testi, crudi, incazzati, contro il sistema precostituito, anche un po’ contro la generazione dei nostri genitori che li vedeva distratti. All’epoca frequentavo anche un jazz club. il Tribù, a Nocera, gestito da Francesco Balestrino. Non mi interessava tanto vedere quei jazzisti che venivano a suonare e che sentivo freddi nel comunicare le proprie emozioni, erano ipertecnici, d’accordo, ma non riuscivo a percepirne il messaggio. La cosa bella era un’altra. Quando andavano tutti via, attaccavamo noi pochi rimasti alle due di notte, a fare jam session fino alle quattro del mattino. Fu una palestra di vita.

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Il territorio dell’Agro ha in qualche modo influenzato il tuo modo di fare musica?

Ho avuto modo di trovare persone che mi hanno aperto tante strade. Tra queste la musica popolare che ho frequentato e che frequento da tempo. È meraviglioso l’approccio del popolo che si riunisce nella corte e comunica insieme i propri  sentimenti tramite il canto sul tamburo, una via bellissima di intrattenimento, un modo per fare comunità. La tammurriata è questo ed è il cuore dell’Agro. A Nocera, a Casale del Pozzo, un tempo erano tutti una famiglia allargata. Le feste comandate erano condivise, si facevano nelle cortine delle tavolate lunghissime, come ancora si ha la fortuna di fare a Pagani, ad esempio, durante la festa della Madonna delle galline. Questa è musica popolare, una musica extracolta. Un mondo che mi ha condizionato nella scelta dei suoni e con cui ho deciso di affrontare la mia carriera da solista. Infatti nasco come compositore e chitarrista per gli Integràl Buatt’, gruppo formato insieme a Peppe del Sorbo, Luca D’Alessandro, Fabio Roselli, Piero Fattiroso, Luca Alessandro, Manuel Pino e Fiorenzo di Palma. Un progetto di musica rock progressivo, alternativo, in napoletano. Siamo alla fine degli anni Novanta e inizio nuovo millennio. Poi ognuno ha preso una strada diversa. A me piaceva la fusione con la musica popolare. Sentivo che vivere come musicista sul nostro territorio e non avvicinarsi e conoscere la musica popolare dell’Agro nocerino fosse un atteggiamento presuntuoso e superficiale. Ho formato un mio gruppo che gestivo e nacque poco dopo Joe Petrosino e Rockammorra.

In questa fusione di generi diversi, incontrasti un artista molto particolare che forse ti ha segnato. Un cantore e attore che aveva già affiancato nomi importanti come Fellini, Tornatore, Barra, De Simone, Giuffrè, Bennato. Come andò la storia con Franco Tiano?

Un incontro determinante, mi ha fatto conoscere in un mondo, quello della musica popolare e della tradizione. Mi ha fatto capire che se c’è la disponibilità da parte delle persone a riconoscere che la musica è una, allora è possibile il dialogo tra generi. Lo conobbi nel periodo in cui stavamo recuperando la festa di Santa Maria a Monte con un gruppo di lavoro formato dall’Associazione Coretammore. A Nocera nel Cinquecento e Seicento gli abitanti salivano la montagna, il martedì dopo Pasquetta e festeggiavano ancora con canti popolari. In quel progetto di recupero storico e musicale, incontrai alcuni amici di Franco Tiano, Gerardo e Ciro e chiesi loro se potessi fargli ascoltare un mio lavoro. Gli portai il disco, Vesuvius, il brano che poi è uscito. Quando lo ascoltò e si rese conto che era una fusione di rock e tammorra, con batteria, chitarra elettrica, mandolini, mi confessò che gli avevo ricordato una sua esibizione in un teatro a Caserta negli anni Ottanta. Aveva portato al pubblico la stessa operazione e per questo era stato criticato all’epoca, quasi malmenato dai puristi della tradizione. È così che nacque la nostra collaborazione. Era alla fine della sua vita, sentiva che qualcosa stava mancando sotto i piedi. Abbiamo condiviso insieme pochi mesi, ma fu una esperienza unica. Già sapeva come lavorare sul brano. Chiamai Rino e Manuela Sellitti che già conoscevo come videomaker e andammo sul Castello del Parco Fienga a Nocera, dove registrammo. Ci lasciò anche una poesia, Je vuless alluccà. Ce l’ho ancora, ogni tanto la leggo, è un testamento che ci ha lasciato. Insomma avevo trovato un compagno di strada e poi e lo avevo perso subito. Dopo la sua morte, non volli aprire il concerto di Teresa De Sio al Ritmo Festival.

Passiamo al mandolino. Ormai è il centro del tuo nuovo percorso. Quando è nato l’amore per questo strumento?

Comincia proprio ai tempi dell’amicizia con Franco Tiano.  Mi serviva un altro strumento che potesse richiamare la tradizione. Entrai in un negozio di musica e comprai il mandolino. Non sapevo come si accordasse, feci ricerche, iniziai a studiarlo, mi resi conto che si accordava un’ottava sopra. Poi venni a sapere che c’era la cattedra di Mandolino al conservatorio. Così ho fatto 3 anni al Martucci di Salerno e 2 anni al San Pietro a Majella di Napoli con il maestro Fabio Menditto. Sentivo una forte tensione verso la musica colta e accademica. Subito mi sono trovato coinvolto in gruppi di musica di insieme, nell’orchestra a plettro del conservatorio, con cui ancora oggi collaboro. Uno studio impegnativo arrivato tardi, essendomi iscritto a 33 anni. Non è stato facile mettere insieme le cose, il lavoro, lo studio, avevo già una figlia. Ma questa esperienza mi è tornata utile. Mi sento parte di un movimento. Il mandolino è uno strumento antico e bellissimo, che soffre di molti stereotipi. Sfruttato dalla cultura, per motivi inadeguati e politici. La regina Margherita di Savoia per avvicinarsi al popolo napoletano si fece ritrarre con un mandolino. Uno strumento da sempre usato dal popolo. Ma in realtà ha una tradizione e un repertorio molto colti, dal Barocco in poi. Inoltre è presente nella cultura brasiliana, in Russia, in Giappone. In questo momento sono la prima mandola dell’orchestra dell’accademia napoletana, e giriamo l’Italia e ho messo in scena uno spettacolo di teatro canzone. Più soddisfatto di così…

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