Intervista a Franz Cerami: “Il ritratto degli altri è spesso il mio autoritratto”

di Davide Speranza

Il gesto è linguaggio imprescindibile, un “paradigma di ragionamento sintetico” per dirla con Giovanni Maddalena nel suo Filosofia del gesto (Carocci editore). Ma dove va a finire nel nostro mondo digitalizzato? Cosa resta dello strumento linguistico-corporeo, in ambito di streaming e intelligenza artificiale (che diventano prolungamento del corpo e dello spirito)? L’arte ci aiuta a comprendere come queste siano domande retoriche e che se l’imposizione del cambiamento dei mezzi di comunicazione sia un fatto oggettivo, è anche vero che il gesto permane come segno, vestibolo tra un dentro e un fuori reali. Il ritratto – inteso come rappresentazione di una persona – è la cartina al tornasole dell’umano nel corso dei secoli.

A ricordarcelo è ad esempio Desmond Morris, etologo e zoologo, divulgatore scientifico appassionato d’arte, che in volumi come In posa-L’arte e il linguaggio del corpo (Johan & Levi editore) e Postures. Body Language in Art (Thames & Hudson) ha provato a studiare le trasformazioni sociali e dei linguaggi del corpo attraverso le opere di grandi artisti, in particolare attraverso i ritratti e i gesti che se ne possono ricavare. Sulla stessa linea, in un saggio agevole e suggestivo (Nel grembo del linguaggio: per un’estetica del gesto supplementare), il ricercatore e docente Stefano Oliva parla di «incontro tra corpo e significato, tra movimento e senso… Questa unità sintetica e al tempo stesso immediata tra materiale e ideale, ovvero tra corpo e significato, ha favorito la concezione secondo cui l’origine del linguaggio andrebbe ricercata proprio nell’espressività gestuale».

Non è un caso se l’artista napoletano Franz Cerami abbia basato buona parte dei suoi lavori – presentati in diversi paesi, tra Europa, Africa e Americhe: Sarajevo, San Paolo del Brasile, Milano, Napoli, San Pietroburgo, Lisbona, Yerevan, Marrakech – sullo studio dei ritratti (umani e urbani, senza soluzione di continuità tra i due mondi) inserendosi in un singolare filone di espressione artistica che utilizza tecniche “analogiche” (pittura a olio, carta, grafite, vetri, pennelli) e digitali (videomapping, visual art) ponendo le basi per una narrazione delle società oggi viventi, secondo paesaggi umani e architettonici. Dai suoi ritratti di luce proiettati sulle superfici di palazzi, monumenti, fabbricati, ponti viene fuori una tessitura visiva che rivela il vestito gestuale – e quindi il segno – della nostra contemporaneità.

Ma cos’è il gesto per Franz Cerami?

Il segno su un edificio, su una grande tela, su un soffitto, su una strada, il gesto mio quando dipingo a olio e grafite, o quando con una tavoletta digitale e un pennello digitale ricalco il perimetro e i perimetri esterni di un edificio, anzi entro dentro l’edificio e disegno una faccia, e poi un’altra faccia,  e dopo creo grandi campiture di colori e questo segno entra ed esce dal Mac o dalla tela e dalla carta, entra nell’architettura, si contamina, si sporca, attraversa gli sfondi della storia mia e degli altri. Ecco, tutti questi sono segni, la nostra traccia sulla terra. C’è una poesia molto bella di Antonio Machado che dice: «Andando si fa il cammino, e nel rivolger lo sguardo ecco il sentiero che mai si tornerà a rifare. Viandante, non c’è cammino, soltanto scie sul mare». È questo il senso. Sono segni che mi permettono di entrare in contatto con altri. E le persone hanno riconosciuto quel mio segno come segno proprio. Che poi è anche un modo per modificare le cose. A San Paolo mi ha colpito molto leggere un messaggio inviatomi da un artista brasiliano su instagram, quando mi ha spiegato la sua gioia nel vedere l’incrocio tra i suoi graffiti e i miei su un edificio che avevo scelto per proiettare. Quel luogo è stato attraversato da diverse realtà e culture, allo stesso tempo quel mio gesto mi ha permesso di incontrare in una realtà digitale un altro artista e comprendere il suo sguardo sul mondo. Insomma il gesto è presenza dei molteplici corpi nello spazio. Penso al lavoro fatto all’aeroporto di Milano, T2 Portraits, dove ho intercettato i gesti delle persone di passaggio, ritratti in movimento. Sono gesti sui quali faccio intervenire il mio di gesto, aggiungo altre immagini, visioni di città che ho attraversato nel mondo. Il gesto è cultura che incontra altra cultura, è tutto, è attraversamento.

In un ritratto, il gesto mette in luce l’anima dei suoi “visitatori”. A chi fa il ritratto? Cosa ne esce fuori della nostra epoca?

Questa è la domanda vera. Il ritratto degli altri è spesso il mio autoritratto. Perché il rapporto con gli altri è il rapporto con noi stessi. Attraverso l’altro scopri te stesso, quindi lo stimoli a fare cose che ti danno conferme. Cerco sempre una interazione con il mio soggetto. In “Migrant Sirens” avevo un’idea, volevo raccontare la bellezza e la forza di queste donne migranti che arrivano da un continente diverso e navigano su un mare pericolosissimo per costruire una nuova comunità e una nuova vita. Ho conosciuto tante donne con storie terribili, ma che avevano anche una voglia di ripartire. Mi hanno indotto a raccontare come l’Europa possa ripartire e ricostruirsi con queste nuove energie. Quindi le ho ritratte allegre, forti, dinamiche. Per farlo ho giocato, ho usato escamotage, ho provato a scherzare, ho finto passi di danza, ho cercato una interazione che desse luogo a pose e movimenti che volevo catturare. Mi sono ritrovato davanti a Odile, donna del Mali, con i suoi occhi scintillanti. L’ho fatta ridere, lei che proprio non sorrideva. L’opera fu commissionata dalla Uil, ritratti giganteschi, vetrofanie enormi, 4 metri per 4, su via Galileo Ferraris a Napoli, un posto di passaggio e periferico. L’opera è stata anche vandalizzata e verrà restaurata a breve. È stato un lavoro lungo. Abbiamo lavorato con mediatori culturali che hanno individuato varie persone di nazionalità diverse, che si sono ritrovate su un set in green screen. I miei migranti sono in ripresa video, quindi ritratti in movimento, postprodotti, dipinti digitalmente, proiettati di notte nella città sulle mura, infine fotografati. Alcuni di questi frame sono stampati, ridipinti e apposti sulle grandi vetrine di quel luogo.

Il gesto è un linguaggio?

È una parte del linguaggio. Esistono tanti gesti nel mio processo. Quello della mano mentre dipingo, il gesto che mi scambio con le persone che ritraggo, come ci muoviamo nello spazio, come richiedo loro di stare davanti alla camera, come approccio con queste persone, come racconto il progetto e chiedo di guardare in camera. E poi il gesto della proiezione delle opere sui palazzi abbandonati, nelle stazioni ferroviarie, sui ponti, autostrade. Il gesto mi dice che la luce attraversa lo spazio e cambia l’identità delle architetture dei posti, cerca una via per condividersi anche con le comunità presenti.

Dunque un gesto in arte può implicare un cambiamento urbano?

Certo, può essere interpretato come atto di trasformazione, straniamento degli spazi notturni, ma nulla è lasciato al caso, almeno in fase di preparazione. Un’azione strategica devi renderla consapevole. L’uso della luce, dei colori, la parte di painting, la scelta del soggetto che voglio ritrarre, la scelta dell’animazione, tutto questo si progetta prima. Poi, però, quando arrivi sul posto ed è notte, ti trovi davanti ad un grande edificio o ad una serie di edifici come a San Paolo, dove ho portato “Remix Portraits” riscrivendo i volti dei ritratti di grandi artisti rinascimentali, allora devi riadeguare ogni elemento che avevi pensato, per poter avere una buona resa. Devi cambiare tutto. In Brasile ricordo che c’era un palazzo con tante microfinestre illuminate, c’era chi mangiava, chi stava alla televisione, chi lavava i piatti, leggeva libri, c’erano luci diverse e tutte queste decine e decine di luci sulla facciata del palazzo interagivano con la mia proiezione, inconsapevolmente, e in quel momento ho dovuto modificare il contrasto, la luminosità, le tonalità perché uscisse il ritratto in maniera più forte. Un lavoro che si fa sulla strada. Su uno di quegli edifici, che era troppo illuminato, ricordo che si è avvicinato un camion della manutenzione, così sono andato dall’uomo che stava salendo su per la scala mobile, per chiedergli se fosse possibile per lui ritornare dopo. Sorpresa, era di Casal di Principe, un nostro conterraneo. Dopo uno scambio di battute, si è allontanato permettendomi di svolgere il nostro lavoro, mi ha spento una luce e la strada è diventata quasi buia, cosa che ha reso migliore la proiezione. In studio, con lo schermo di un computer, controlli tutte le variabili possibili, ma la bellezza sta nel trovarti di notte e riuscire a rendere il tuo ritratto quanto più vicino possibile a quello che avevi ideato. Un’altra cosa emozionante è il confronto con le persone, con i tecnici, il pubblico. A San Paolo avevo uno staff enorme, un lavoro organizzato da Diego D’Ermoggine, un produttore italiano molto visionario che abita a Torino, e curato da Ana Marta Ditolvo, che insegna Restauro architettonico in Brasile. Tra l’altro mi ha appena coinvolto in un nuovo progetto di ritratti legato ad una vecchia ditta di telefonia di San Paolo, ritratti di centraliniste. Sarà molto interessante anche questo.

Facciamo ordine. Il gesto dell’artista si intreccia con quello dei soggetti e dell’ambiente in un condizionamento reciproco continuo. In questo processo, dove sta l’effetto tempo?

Il tempo è una variabile strana, il processo del ritratto, qualsiasi ritratto, anche nel mio caso, è un processo lungo, fatto di stratificazioni, di attese diverse tra me, il committente, le persone che vengono scelte per l’opera. Il problema è che tenere insieme queste persone è il vero lavoro, fare in modo che quel gesto abbia una valenza comune per tutti. Un esempio è quando mi hanno chiamato a lavorare a Corigliano-Rossano in Calabria. La scommessa per me era molto affascinante, Corigliano-Rossano è un nuovo comune italiano, nasce dall’unione di due antichissimi comuni, due borghi che si detestavano, uno dei due era povero, l’altro ricco. Quello povero pensava che il nemico avesse steso un lenzuolo davanti al sole per impedire alla luce di passare, inficiando così l’agricoltura e la coltivazione dei campi. Fui chiamato dalla vice sindaca Maria Salimbeni. Una persona molto colta e determinata, come solo certe donne del Sud. Era molto esigente. Conosceva i miei lavori e voleva che facessi qualcosa di profondo sul tema della nuova identità di Corigliano-Rossano. Sono andato in città molte volte, per incontrarli, sentire, capire. Mi hanno raccontato storie e miti, tra i quali esce fuori la storia del lenzuolo. Queste due comunità avevano un antico e forte dissidio, ma ora stavano assieme dopo un referendum. L’idea mi entra in testa, cerco la parola lenzuolo in calabrese, e scopro uno dei modi di dire “lenzuolo” nel loro dialetto, che è “denzolu”. Mi innamoro di questa parola che sembra giapponese, strana, lontana. Ho voluto chiamare il progetto in questo modo, Denzolu. Così ho iniziato a lavorare sull’elemento che li ha divisi, il lenzuolo, rendendolo elemento unificante. Il gesto del mettere un lenzuolo davanti al sole lo faccio diventare un gesto positivo, pulito, di unità. Faccio stampare i loro ritratti sulle lenzuola che si appenderanno sui balconi dei loro appartamenti. Ecco come nasce un’idea e come si trasforma, insieme alla comunità, alla gente, ai committenti. Un gesto finale fatto di tanti gesti precedenti, che raccontano come oggi viviamo, come arriviamo da un passato lontano. In tutto questo, tu come artista devi saper raccontare la tua idea ed essere delicato con chi l’ha scelta. Quando parlai del mio progetto al Comune sono impazziti, sono rimasti affascinati. Il lavoro è iniziato. Una volta stabilito che il ritratto andava fatto su grandi lenzuola appese ai balconi, ho deciso di organizzare grandi call con mediatori del luogo, comunità di agricoltori, operai, avvocati, dottori, sono entrato ovunque, nei circoli sportivi, nelle salumerie, nella chiesa, nei bar. Ho conosciuto una stupenda osteria dove i commensali a mezzanotte suonano e ballano fino alle due del mattino. Ho ritratto i pescatori, nel quartiere dove è nato il calciatore Gattuso, a Schiavonea. Le loro facce erano meravigliose, facce scolpite, grandi segni, occhi bellissimi. Da una parte realizzavo ritratti video delle persone, dall’altra usavo la macchina agganciata al parabrezza dell’auto, girando in 4K. Ho prodotto i ritratti con un sistema di blending tra le persone e la città. Ho ricavato immagini evocative, con pezzi di città, di occhi, la mappa dei corpi e dei volti l’uno dentro l’altro. Non è stato facile entrare subito in relazione, non è mai facile. Ritrarre le persone è un’operazione violenta, sempre. Entri nell’intimità dell’altro. Chi è molto sensibile sa che quel ritratto è una cosa potente, il ritratto resta. Abbiamo avuto la necessità di uno della comunità di Schiavonea. Per Limen Portraits, a Napoli, è stata la stessa cosa, al mercato di Poggioreale. Anche lì avevamo bisogno di un mediatore, di uno che fosse in grado di parlare e incontrare, che fosse riconosciuto dalla comunità. Il tempo è un compagno con cui fare i conti.

Ha nominato più volte la parola “committente”. Nel processo creativo di un gesto artistico, di un ritratto, la presenza di una committenza non è pericolosa?

No. Anzi, è una parola bellissima, il committente crea l’occasione. Quando il committente è molto forte, sta disegnando un perimetro, che non è sempre il perimetro che sto disegnando io. Però quel limite può essere interessante. La storia dell’arte è fatta di artisti e commissioni. In questo caso la committenza è stata fondamentale. Stavano aprendo il Terminal 2, volevano una mia installazione. Ho raccontato cosa pensavo di un aeroporto. Di cosa siano per me le comunità. In questi posti, molti sono di passaggio. Il tema dell’incontro mi affascina sempre. Accanto al ritratto delle persone ci sono anche i ritratti dei luoghi. Poi si discutono i costi del progetto, che non sono parte residuale del tutto. C’è un valore e microvalori. C’è tutto un lavoro di ingegneria artistica, architettura di un sistema che deve funzionare, investendo di più su una cosa piuttosto che su un’altra. Un gioco di equilibri che ti consente di restituire il progetto nella sua complessità in modo simile a quello che si era immaginato. Queste operazioni e i loro meccanismi perfetti avvengono proprio grazie a quel perimetro, a quel limite fissato dall’altra parte.

Dunque non storcerà il naso neanche di fronte a parole come acquirenti e mercato?

Posso dire che sono parole necessarie. Esiste un mercato, l’arte senza mercato non sopravvive, sono da sempre due mondi legati l’una all’altro, è anche questione di rapporti di forza tra le parti. Ho molte richieste. Tutto dipende dall’opera. Penso al lavoro di Red Venus, con la videoproiezione al Mann, e che tra l’altro adesso si vedrà in giro in diverse mostre (due opere di Franz Cerami – Mars e Venus I – appartenenti alla serie “Red Venus”, sono tra le recenti acquisizioni della Collezione Farnesina, NdR). Ho rideclinato la mia idea con carta, olio e grafite. Mentre altre opere sono in lightbox, opere digitali stampate su plexiglass, ritratti. Pochi giorni fa mi hanno chiesto un lavoro su committenza privata, è una cosa delicata e interessante. Può essere una signora che mi chiede il ritratto suo e del marito. Oppure la richiesta di un signore per la propria donna che ama, padri e figli, una coppia. Ci sono committenze molto diverse. Pubbliche, istituzionali, private che a loro volta si dividono tra chi vuole farsi un ritratto e chi vuole comprare un’opera già finita. A volte vado a casa delle persone che desiderano farsi ritrarre. Proviamo a costruire un rapporto maieutico, devo capire cosa desidera la persona, cosa pensa di sé e cosa mi intriga. Ecco che il cerchio si chiude, perché tutti questi processi vengono mediati dai gesti, dalle parole, dai movimenti nello spazio e nel pensiero. È una sommatoria di elementi che costruiscono una piccola storia nella grande narrazione delle comunità del mondo.

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