Venezia 77, premi e considerazioni finali. Il Leone d’oro al modesto ‘Nomadland’

Anche quest’anno al Mostra del Cinema di Venezia va in archivio. Al di là dei film belli o brutti, quelli amati o detestati, la cosa più importante a questo giro è che questa manifestazione si sia tenuta e che tutto si sia svolto nel migliore dei modi. In un momento storico così difficile per tutti noi, la Mostra è stata un momento di vita. Proviamo, comunque, a fare qualche considerazione conclusiva e qualche commento sui premi e sulle opere passate in questi giorni al Lido.

Il Leone d’oro

Come si sa, il massimo premio è andato a Nomadland, terzo lungometraggio di Chloé Zhao, regista sino-americana, nata a Pechino trentotto anni fa. Come accade ormai praticamente a ogni edizione che si è tenuta negli ultimi anni, a essere premiato è il film produttivamente più forte (sarà distribuito in sala da Searchlight Pictures, cioè dalla Disney), quello sulla cui affermazione i bookmaker avevano scommesso prima ancora che la Mostra cominciasse, senza che nessuno lo avesse neanche visto. Al di là delle considerazioni politiche, che pure dovrebbero avere la loro importanza, Nomadland è un film poco più che sufficiente. Esso ruota intorno a Fern, una donna, interpretata da una sempre brava Frances McDormand, che ha perduto la sua casa in seguito alla chiusura dell’azienda per cui lavorava (e che dava anche alloggio ai suoi dipendenti) e si è ridotta a vivere dentro il suo minivan. La sua vicenda porta lo spettatore a conoscere altri personaggi che si trovano nella sua condizione e che, a differenza della McDormand, sono veri nomadi. Il film ci racconta la storia (vera) di alcuni di essi, e lo spettatore può così apprendere i motivi che li hanno costretti a vivere dentro un camper, scoprendo che le ragioni non sempre sono di natura economica. Nomadland parte dunque da un’idea affascinante e suggestiva, quella di mescolare fiction e cinema del reale, e ha senz’altro una prima parte (meno di metà film) che funziona piuttosto bene, soprattutto quando a prevalere è la dimensione corale. La regista e sceneggiatrice decide poi di dare esclusivo spazio alla protagonista, e il film perde via via d’interesse, sviluppando alcune sottotrame inessenziali e tutt’altro che avvincenti, arrivando stancamente verso la conclusione, appesantita da un eccesso di finali. Non aiuta, inoltre, la colonna sonora di Ludovico Einaudi, ridondante e invasiva al punto che, in una sequenza, Zhao la inserisce addirittura a coprire una bella canzone country suonata dal vivo da un gruppo di uomini. Per questa ragione, Nomadland, sebbene non manchi di qualche momento in cui l’emozione arriva in maniera anche forte, è un film più astuto che profondo, un po’ ruffiano e privo di asperità, che sceglie di smussare gli spigoli e di blandire lo spettatore. Tra l’altro, la regista dirigerà The Eternals, il nuovo film Marvel in uscita nel 2021, e quindi tutto torna. Come buona parte dei vincitori delle ultime edizioni, il vincitore del Leone d’oro comincia da Venezia la sua corsa verso gli Oscar dell’anno prossimo. Onestamente, la giuria avrebbe potuto rischiare un po’ di più. E ora tu, Chloé, dove la trovi la forza morale e lo spirito per fare un film come The Rider?

Gli altri premi

Wife of a Spy: lo spy drama di Kyoshi Kurosawa va bene giusto per la TV generalista [recensione] | Anonima CinefiliSe il Leone d’oro di un Concorso (va detto) tutt’altro che entusiasmante non è la scelta migliore che la presidente Cate Blanchett e i suoi co-giurati potessero fare, non molto meglio è andata con il Gran Premio, assegnato a Nuevo Orden del messicano Michel Franco. Con le vittorie negli scorsi anni di Guillermo Del Toro, Alfonso Cuarón e del venezuelano Lorenzo Vigas (prodotto da Guillermo Arriaga e dallo stesso Franco), questo premio conferma lo strano gemellaggio tra la Mostra e il grande Paese centroamericano, a dire il vero non sempre meritevole di tutti i premi che gli piovono copiosamente addosso a ogni edizione, quasi come se ci fosse un tacito accordo. Nuevo Orden è un’opera che racconta una rivolta prima popolare e poi militare in un Messico in cui le disparità economiche sono diventate ormai insopportabili. Ma, dopo una prima mezz’ora molto potente, il film finisce per incartarsi, diventando narrativamente confuso e prolisso, stilisticamente autocompiaciuto e politicamente ambiguo, rivelando la sua natura sostanzialmente reazionaria. Il Leone d’argento per la regia è andato al grande Kiyoshi Kurosawa per Wife of a Spy, melodramma spionistico ambientato nella città di Kobe alla viglia dell’entrata in guerra del Giappone. Omaggio al cinema classico giapponese, Wife of a Spy è un buon film, non certamente il punto più alto nella carriera di un regista strepitoso. Tuttavia, è un premio cui ci sentiamo di plaudire e vale come tardivo riconoscimento, come il regista stesso ha sottolineato nel suo discorso di ringraziamento, per un cineasta straordinario. Il Premio della Giuria è andato ad Andrej Končalovskij per il poco entusiasmante Dear Comrades!, resoconto di una strage di operai nella Russia post-staliniana, opera polverosa e un po’ ovvia. Da registrare la Coppa Volpi inspiegabile a un Pierfrancesco Favino incolore e ben poco in scena per PADRENOSTRO di Claudio Noce (c’è però da dire che la compagine attoriale maschile era piuttosto dimessa), l’unico italiano ad andare a premio, e quella per la migliore attrice a Vanessa Kirby per Pieces of a Woman, brutto film (come sempre) dell’ungherese Kornél Mundruczó, che ha al suo attivo un lungo piano sequenza iniziale di circa trenta minuti che mette in scena gli ultimi momenti di un parto.

Delusi e sconfitti: le nostre scelte

Venezia 77: Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanić - Recensione - Shockwave MagazineCome detto, in un Concorso poco esaltante, senza capolavori e con pochissimi grandi autori, il Leone sarebbe potuto andare a chiunque, prima che il raccomandatissimo Nomadland arrivasse a sparigliare le carte. Premesso ciò, c’era almeno un grande film che è stato completamente ignorato: si tratta di Quo vadis, Aida? della bosniaca Jasmila Žbanić, che racconta con una messinscena potente la strage di Srebenica durante la guerra dei Balcani. Delusione anche per Rai Cinema e i suoi tre film: se Notturno di Gianfranco Rosi era un’opera eticamente problematica e Le sorelle Macaluso di Emma Dante un film troppo piccolo per ambire a grandi riconoscimenti, dispiace veder tornare a casa a mani vuote un’opera fresca e coraggiosa come Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, regista le cui quotazioni sono sempre più in rialzo. Uno dei nostri film del cuore, anch’esso fuori dal palmarès, è stato il sottile e bellissimo The World to Come di Mona Fastvold, storia d’amore omosessuale che vede protagoniste Elizabeth Waterston e ancora Vanessa Kirby. Forse le precedenti vittorie di Brokeback Mountain e, a Cannes, de La vita di Adèle hanno fatto considerare il tema un po’ troppo inflazionato.

Altre visioni

Venezia77 - City Hall: Frederick Wiseman ritorna a Boston - SentieriSelvaggiLe cose migliori e le migliori sorprese sono venute tutte fuori dal Concorso: segnaliamo City Hall, il nuovo documentario di Frederick Wiseman, Fuori Concorso, sull’attività municipale della città di Boston e del suo sindaco Walsh, e alcune opere inserite in “Orizzonti”, che quest’anno è tornata a essere il polmone verde della manifestazione. Da ricordare, in questa sezione, almeno Guerra e pace di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (per distacco, il miglior film italiano presente al Lido), gli iraniani Wasteland di Ahmad Bahrami (che ha convinto anche la giuria presieduta da Claire Denis che gli ha conferito il premio come Miglior film) e A Careless Crime di Shahram Mokri, uno splendido e fulgido esempio di come si possa fare un film al tempo stesso profondamente teorico e potentemente politico, Yellow Cat di Adlikhan Yerzhanov, opera lunare e sublime a metà strada tra Chaplin e Aki Kaurismäki. Un discorso a parte meritano Hopper/Welles, una lunga intervista, da poco ritrovata, di Orson Welles a Dennis Hopper all’indomani del successo clamoroso di Easy Rider, e Samp di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, un oggetto meravigliosamente squinternato e inafferrabile piombato come un UFO in una manifestazione poco avvezza a dare spazio al cinema italiano più indipendente.

L’organizzazione

Questa 77° edizione sarà ricordata come quella del Covid 19. La manifestazione, che molti avrebbero preferito non si facesse, è stata fortemente voluta dagli organizzatori, e i fatti hanno dato loro ragione. Ci sono state alcune incertezze iniziali: il nuovo sistema di prenotazione anti-code online è andato in tilt dopo poche ore, scatenando le ire e le ironie degli accreditati stampa. Inoltre, gli addetti ai lavori hanno appreso troppo tardi la notizia che in sala stampa non ci sarebbero stati PC a disposizione degli accreditati, e questa resta un disservizio (soprattutto per quanto concerne il sistema di comunicazione) che si spera non si ripeta più. A parte questo, la macchina organizzativa messa in campo dalla Biennale ha retto molto bene, tutto si è svolto nella maniera più ordinata possibile e c’è stato un clima relativamente disteso, con la possibilità di vedere tutti i film risparmiando l’inutile perdita di tempo delle lunghe file per entrare in sala. La notizia, quindi, in questo caso è che, curando con la massima precisione tutti gli aspetti, è possibile svolgere eventi sontuosi e importanti come la Mostra d’arte cinematografica, e di questo ne hanno beneficiato tutti. Per questo, in ogni caso, quest’anno ci sentiamo di dire davvero: Viva la Biennale! Viva il cinema!

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