“Fabrizio De André – Principe libero”: un bel sogno inutile, che si scorda al mattino

Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare

Samuel Bellamy, pirata britannico

Il racconto della vita di uno dei più grandi cantautori italiani attraverso un biopic, che è uscito nelle sale italiane per soli due giorni, il 23 e 24 gennaio e verrà trasmesso in TV da Rai 1 in due puntate il 13 e il 14 febbraio.

All’indomani della scomparsa di Fabrizio De André (“Faber” per gli amici e i fan più calorosi), avvenuta l’11 gennaio di diciannove anni fa, la Rai dedicò ampi servizi e più di uno speciale al “cantautore anarchico”, al “poeta della canzone”, secondo due delle definizioni più comunemente usate per descriverlo, per ricordarne la vita, le gesta e la produzione artistica, senza lesinare interviste e testimonianze di amici, parenti, colleghi e familiari, un rosario di interventi capaci di restituirne un ritratto a tutto tondo, che non fosse né edulcorato né fastidiosamente agiografico ma attento a descriverne il temperamento e la grande e profonda umanità. Non mancarono anche documentari (tra i quali val la pena citare almeno Faber di Bruno Bigoni e Romano Giuffrida), biografie più o meno autorizzate e libri che consentirono di approfondire la figura di De André. Tra essi, uno dei più interessanti è secondo me Amico Fragile di Cesare G. Romana, nel quale venivano riportati ampi stralci in cui l’autore di Bocca di rosa e de La canzone di Marinella aveva la possibilità di raccontarsi senza risparmiare gli episodi più scabrosi della sua vita e regalava al lettore ampie digressioni che, lungi dalla mera enunciazione di fatti, consentivano di penetrare dentro la profondità del suo pensiero.

Tanto premesso, ci si chiede quindi che senso abbia girare un film su un personaggio così conosciuto senza inserire nella narrazione per immagini alcun elemento che aiuti a scandagliare la complessità di una figura come Fabrizio De André, o si soffermi su aspetti meno battuti, se non inediti, della sua biografia. Infatti, il limite maggiore dell’operazione risiede nel fatto che il Fabrizio descritto nel film è esattamente come te lo immagini: timido, schivo, introverso, riottoso verso le regole e le convenzioni, che vive con disagio la sua condizione di “figlio di papà”. Il film diretto dal quasi esordiente Luca Facchini parte dall’adolescenza di Fabrizio quattordicenne, descrive i primi screzi con il padre, esigente ma generoso, la passione per la poesia e la musica, le amicizie con Paolo Villaggio, Luigi Tenco, Riccardo Mannerini, la frequentazione dei bordelli, il rapporto con la prima moglie Enrica “Puny” Rignon, l’incontro con Dori Ghezzi, e il conseguente innamoramento, il rapimento subito dalla coppia che fa da cornice narrativa agli eventi raccontati. Purtroppo, buona parte dell’esecuzione di quello che è poco più di un diligente compitino consiste nel mettere in scena, quasi giustapponendoli, una serie di quadri e di eventi in cui si stabilisce in maniera semplicistica, quando non arbitraria, un rapporto di causa-effetto che appiattisce ogni complessità, smussa ogni spigolo, disegna personaggi imprigionati dentro la fissità delle loro maschere. Per cui, ad esempio, Puny è la “moglie borghese”, perfettamente imbrigliata dentro le convenzioni del buon senso, il fratello Mauro è il figlio assennato, perfettamente speculare all’inquieto e tormentato Fabrizio, Dori Ghezzi è la ragazza libera e solare da contrapporre a Puny. Pur avendo a disposizione ben 193 minuti, gli autori si limitano a dare una maggiore caratterizzazione al solo Fabrizio, contornato perlopiù da macchiette o “tipi” (riesce a far macchia, almeno in alcuni momenti, solo il Paolo Villaggio di Gianluca Gobbi).

Come detto sopra però, anche Fabrizio è descritto senza particolare incisività, nonostante l’impegno di un Luca Marinelli più che decoroso, servito da una sceneggiatura tutt’altro che impeccabile. Mancano, infatti, la profondità del pensiero politico anarchico di De André (al quale lo script riserva solo un paio di veloci battute, come se a dirle fosse il primo adolescente che passa), il suo passaggio da un’idea più collettivista che risente del pensiero di Bakunin al profilo tormentato e solitario di Max Stirner (citato, a questo punto abbastanza inutilmente, durante un concerto). C’è da dire infatti che l’adesione di De André all’anarchismo non fu soltanto un’astratta condivisione di idee: è abbastanza noto, infatti, che Faber durante la sua vita finanziò più volte la FAI, la Federazione Anarchica Italiana, e non perse occasione per prendere le difese degli anarchici contro le accuse infamanti rivolte loro negli anni della strategia della tensione.

Le stesse riserve si possono poi avanzare sul lungo segmento in cui viene narrato, in maniera molto farraginosa e superficiale, l’episodio del rapimento. È noto che, ad un certo punto, vivendo in Sardegna e vedendo lo scempio che la politica faceva di quel territorio, Fabrizio simpatizzò con l’indipendentismo sardo ed ebbe parole benevole, o quanto meno non rancorose, verso i responsabili materiali del sequestro, due contadini, semplici strumenti di mandanti di ben diverso stampo, riconoscendo di essere stato trattato con umanità. Insomma, l’impressione è che Principe libero estragga e astragga (ci si perdoni il gioco di parole) De André dalla Storia, ne disegni la parabola esistenziale isolandolo totalmente dal contesto, quasi come se il mondo esterno non avesse influito in nessun modo sulla sua formazione umana e sulla sua opera, e dando quasi ad intendere una sua totale indifferenza rispetto agli accadimenti del contemporaneo.

Al di là delle intenzioni (di certo ottime), i risultati raggiunti sono quindi nel complesso assai modesti, sebbene non manchi un certo decoro e uno sforzo di uscire dalla piattezza del più classico prodotto televisivo. Il rischio però è che il film abbia poco o nulla da insegnare a coloro che già conoscono De André e che, allo stesso tempo, appiattisca un pensiero così complesso trasformando una figura complessa in una sorta di santino, ad uso e consumo delle nuove generazioni (ammesso che vedano il film, cosa tutt’altro che scontata). Esattamente quello che Faber avrebbe maggiormente aborrito, come viene detto in una delle poche battute indovinate del film.

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