Venezia 77, giorno 7. A ‘Notturno’ di Gianfranco Rosi manca l’etica dello sguardo

Visualizza immagine di origineProprio ieri su queste pagine parlavamo in termini elogiativi di un film italiano di grande bellezza e intelligenza, Guerra e pace di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, inserito nella sezione “Orizzonti”. Purtroppo non possiamo esprimere lo stesso entusiasmo per un altro documentario italiano della selezione, Notturno di Gianfranco Rosi, regista che torna in Concorso a Venezia sette anni dopo la vittoria del Leone d’oro ottenuta nel 2013 con Sacro GRA e quasi cinque anni dopo Fuocoammare, Orso d’oro alla Berlinale 2016. Notturno, in sala da domani, è un viaggio nel dolore del Medio Oriente, sconvolto da guerre e oppresso da dittature. Il regista si è mosso al confine di alcuni Stati (Iraq, Kurdistan, Siria, Libano), le cui tragiche vicende occupano da decenni le cronache dei nostri telegiornali.

Visualizza immagine di origineRosi si pone l’ambizioso tentativo di raccontare le conseguenze dei conflitti sulle persone che vivono in alcune aree mediorientali. Purtroppo, è già qui, nella generica e semplicistica definizione di “Medio Oriente” che leggiamo nei titoli di testa e che vuole mettere insieme territori, storie e vicende geopolitiche molto diverse, che si rivela il fallimento totale dell’operazione messa in campo dal regista. Le immagini del film passano, senza soluzione di continuità, da militari in addestramento (se siano iracheni, curdi, libanesi o siriani, e a quale fazione politica o religiosa appartengano non è dato sapere), a una madre curda che intona un lamento funebre per il figlio all’interno di un carcere dove il ragazzo ha trovato la morte, da un cantore di strada che intona lodi per l’Altissimo alle donne peshmerga che si scaldano al fuoco prima di combattere, da un reparto psichiatrico all’interno del quale alcuni pazienti stanno facendo le prove per una recita ad alcuni bambini siriani che raccontano, balbettanti per lo shock, le atrocità compiute dall’ISIS nei loro villaggi. Proprio quest’ultimo frammento, se da un lato rappresenta sicuramente il momento emotivamente più straziante del film in cui anche lo spettatore più corazzato si sente annichilito dalla crudezza e la spietatezza raccontata in quegli episodi, che trova una rappresentazione nei disegni eseguiti dai bambini, dall’altro lato la maniera in cui sono utilizzati i bambini solleva uno dei tanti interrogativi sull’ortodossia dell’operazione.

Visualizza immagine di origineUno dei problemi principali di Notturno risiede dunque nella sovrabbondanza dei segmenti, degli episodi (talvolta della durata di qualche minuto e, quindi, totalmente inessenziali) che Rosi sceglie di raccontare componendo un calderone in cui lo spettatore non sa quasi mai in quale luogo si trovi e quale identità e/o collocazione politica abbiano le persone davanti alla macchina da presa. In questo modo, è come se si affermasse implicitamente, con irricevibile semplificazione, che il Medio Oriente rappresenti una sorta di blocco unico, compatto, fatto di tragedie intercambiabili se non addirittura sovrapponibili l’una con l’altra. In più, in diverse sequenze, e questo è ancora più discutibile, il regista sembra ricercare maggiormente, se non esclusivamente, la “bella immagine”, l’inquadratura nitida, levigata, dove magari campeggia un bel tramonto, piuttosto che concentrarsi sul racconto delle vite delle persone messe in scena, le quali si riducono a essere, loro malgrado, oggetto e non soggetto. La madre, il bambino costretto a lavorare per aiutare la numerosa famiglia, le guerrigliere curde, il pescatore, ecc. appaiono come figure stinte, indefinite, senza storia, la cui presenza si riduce a cartolina tragica, e dove si sconfina in un vero e proprio turismo del dolore. Diversamente da quanto Rosi, ad esempio, riusciva a fare con lo splendido Below Sea Level, forse la sua opera più importante e riuscita, in cui lo spettatore poteva toccare realmente con mano le esistenze amare nell’America profonda, lontana dalle grandi metropoli, qui si avverte una continua distrazione estetica, una costante preoccupazione per il contenitore piuttosto che per il contenuto. Se si sta raccontando il dolore di una madre che piange il figlio e stringe nelle mani una fotografia, è davvero necessario staccare sulla foto? Non sarebbe, invece, più opportuno mantenersi pudicamente e rispettosamente a distanza?

Visualizza immagine di origineProbabilmente, quello che vediamo sullo schermo è frutto di una decisione deliberata del regista che, con tutta evidenza, voleva tenere lontano dal racconto il contesto politico, la geografia dei conflitti e degli schieramenti, la complessa stratificazione sociale e religiosa dell’area prescelta (comunque troppo estesa e impossibile da racchiudere in un unico film). Ora, se la volontà era quella di dare spazio agli individui, alle esistenze più minute, paradossalmente la moltiplicazione di segmenti spesso inintelligibili depotenzia una scelta che avrebbe potuto invece rivelarsi proficua e fervida, capace di trovare una lettura singolare e non convenzionale di qualcuno dei conflitti e delle tragedie che il film pur si propone di rappresentare, per quanto per vie laterali.

Vale anche poco la scusa che, muovendosi in territori in cui le circostanze non consentono il massimo dell’agibilità, il regista si sia trovato probabilmente a riprendere ciò che ha trovato, ad accontentarsi di quel che via via incrociava lo sguardo della sua macchina da presa. Obiezione discutibile perché – almeno questo si avverte – ognuna di quelle vite che vediamo scorrere davanti a noi per pochi secondi contiene in sé una forza dirompente, una pienezza che all’autore sembra interessare fino a un certo punto, e comunque meno delle luci da scegliere per le inquadrature. Talvolta, forse, bisognerebbe farsi delle domande e valutare se, di fronte all’insormontabilità di un compito improbo, non sia il caro di arretrare. Per pudore.

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