Cannes 2019: premi e considerazioni finali

Come da previsioni, la 72° edizione del Festival di Cannes è stata di altissimo profilo, con un con un Concorso che schierava alcuni dei massimi autori del cinema contemporaneo e le cui opere hanno quasi sempre mantenuto le aspettative. Alla fine, la Palma d’oro è andata al sudcoreano Bong Joon-ho con il suo splendido Parasite, settimo lungometraggio di un autore che due anni fa portò alla Croisette tra le polemiche Okja che, per il solo fatto di essere una produzione Netflix (unitamente a The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach), scatenò le polemiche generando l’estromissione della piattaforma dalle successive edizioni. Tra l’altro, in quell’occasione il Presidente di giuria era proprio il grande sconfitto di questa edizione, quel Pedro Almódovar che annunciò che mai avrebbe premiato un film targato Netflix.

Parasite è la storia di una famiglia povera che tenta la scalata sociale, riuscendo a installarsi con grande furbizia nella ricca abitazione di un nucleo familiare molto agiato e tentando di prenderne il posto. Commedia scatenata, che per numero di colpi di scena ricorda la migliore tradizione della commedia statunitense, Parasite è un’opera che sa inserire con intelligenza forti accenti di critica sociale per descrivere la linea che separa i cittadini di uno stesso Paese, una linea che assume ancora maggiore importanza in uno Stato letteralmente diviso in due. Una Palma d’oro meritata e storica perché è la prima volta che il massimo riconoscimento del Festival di Cannes va a un film proveniente dalla Corea del Sud.

Per quanto riguarda gli altri premi la Giuria ha fatto la scelta di preferire, con una sola discutibilissima eccezione, autori giovani o comunque meno affermati rispetto a maestri riconosciuti come Terrence Malick, Marco Bellocchio, Quentin Tarantino, Ken Loach, Jim Jarmusch e il già citato Pedro Almodóvar, il cui meraviglioso Dolor y gloria ha portato a casa solo il premio all’attore al miglior Antonio Banderas di sempre.

E quindi gli altri vincitori sono stati i due esordienti, la senegalese Mati Diop e il francese di origine maliana Ladj Ly, che si sono aggiudicati rispettivamente il Gran Premio della Giuria e il Premio speciale, quest’ultimo ex-aequo con Bacurau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles, film forse premiato con troppa generosità. E, ancora, il premio per la sceneggiatura a Portrait de la jeune fille en feu, il quarto, più ambizioso e, per chi scrive, meno riuscito lungometraggio di Céline Sciamma, con un film in costume che racconta la storia d’amore tra due ragazze, destinate a separarsi per l’annunciato matrimonio di convenienza di una delle due.

Sia Atlantique di Mati Diop che Les Misérables di Ladj Ly erano opere dal forte contenuto sociale: la prima ruota attorno allo sfruttamento dei lavoratori in Senegal, sfruttamento che costringe poi queste persone a partire e perdere la vita in mare, la seconda racconta con grande potenza l’esplosiva situazione della banlieu parigina attraverso il resoconto della giornata-tipo di tre poliziotti che operano con metodi ben al di fuori della legalità.

Se nell’ottica di voler dare una possibilità a registi non ancora affermati si può in parte giustificare un verdetto che, Palma d’oro a parte, non ha certo premiato i film dal maggiore valore artistico, lascia sconcertati il Premio per la Regia a Le jeune Ahmed di Jean-Pierre e Luc Dardenne, che hanno portato sulla Croisette la storia, diretta e raccontata in maniera a dir poco superficiale, del giovane del titolo e della sua radicalizzazione in seguito alla predicazione dell’imam del quartiere. Fa davvero impressione che una giuria composta da sette registi abbia potuto premiare la piatta messinscena dei due belgi che forse hanno maturato lo strano diritto di lasciare Cannes sempre con un premio in tasca (sei premi ai loro film su otto partecipazioni al Concorso). Scelta molto convincente invece la Menzione Speciale per It Must be Heaven, del palestinese Elia Suleiman (vincitore anche del premio FIPRESCI, della critica internazionale), film sublime che però difficilmente avrebbe potuto mettere d’accordo la totalità di una giuria molto composita.

Per il resto, c’è da dire che è stata un’edizione molto caotica per quanto concerne le proiezioni stampa, spesso mescolate con quelle a “inviti”, generando molto malumore tra gli addetti ai lavori, costretti a scrivere a orari impossibili e vedendo spesso il film in ritardo. Forse un Festival così importante dovrebbe da un lato aprirsi maggiormente a spettatori e semplici appassionati, magari con proiezioni loro riservate, dall’altro tener conto della differenza tra chi viene sulla Croisette a lavorare e chi invece guarda i film soltanto per diletto o passione. Quest’ultima categoria merita, sia chiaro, il massimo rispetto (il cinema esiste perché esistono gli spettatori) ma non subirà certamente nessun particolare danno nel vedere il film con ventiquattr’ore di ritardo rispetto a chi deve scriverne. Resta infine l’ottima scelta di campo di un Festival, che insistendo sul rifiuto di Netflix, accoglie implicitamente l’idea della centralità della visione in sala.

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