Sine sole sileo

di Eliana Petrizzi 

 

Sorpresa dal sospetto di non esistere, sono il punto in cui l’orologio fermo segna l’ora esatta. L’avorio fine delle ore, una parola onesta del suo splendore insignificante: mi viene uno stupore continuo per cose che non conosco, a ricordare che i momenti migliori sono sempre quelli vuoti di me. Avere la quiete dell’acqua, che aspetta per giorni nei pozzi. Cercare l’uomo, che solo cambiando aria s’incontra, come riconosci l’odore di casa da quello rimasto tra i tuoi capelli spostati dal vento.

Vengo ogni giorno in questo prato, a ringraziare per il popolo dei passeri che chiacchiera tra i rami, per il piccolo insetto posato sul foglio, per l’incenso dei campi. Sdraiata, vivo in pienezza il momento presente, e quando mi alzo, aiuto l’erba schiacciata a riaversi dal mio peso. Guardo gli alberi sfumati dal maestrale, la vocazione delle strade a una disarmonia che rassicura. Niente mi somiglia, e in questo mi riconosco. Il suono del vento viene a ricordarmi i miliardi di morti dall’inizio dei tempi, il mistero di civiltà scomparse, la striscia sottile di terra nei dipinti fiamminghi, che riassume così bene la natura delle cose e degli uomini. Nelle misteriose necessità della vita, tutto serve. Nessuno si curerà di me, e niente mi sarà inutile.

Gli uccelli cantano la sacra immanenza del mondo, insieme a cose e persone che credevo perdute. Il silenzio di ogni cosa che passando non resta trova in me il suo centro; in me seduta, lenta, nessuno. Alberi: intelligenza delle astrazioni ornative, alchimia che consola nel suo chiaro mistero. Il sole inclina un raggio di luce in cui le cose perdute un poco smettono di morire. E di nuovo giù, nel sacro di quest’ erba che è andata e che viene. Osservo i paesaggi, per capire che le forme restano più care se sciolte. Diventare nella vita come le forme nei paesaggi, corteggiare l’inverno nelle relazioni, curare la sfocatura e lo sbando. Infine, rinnovare rispetto per chi ha il coraggio di esistere senza lasciare traccia, nella pienezza primordiale in cui tutto è possibile e niente prende forma, preservando dalla coscienza del tempo, dalla megalomania degli scopi, e dalla paura del buio.

In casa, mi piace riporre gli oggetti e guardarli a lungo, come se domani non saranno più miei. Curo i rattoppi, saluto l’irreparabile. Chiedo scusa alle cose punite in ghetti: alle borse dimenticate, alle collane mai indossate, alla tenda stirata male, alla mela che voleva un morso, ma che ho lasciato a centro tavola come un vaso. Chiedo scusa alle formiche spazzate via e al loro piccolo peso che adesso manca al mondo. Verrà un giorno in cui le cose da amare mi chiederanno cosa ne avrò fatto. Mi sarò accanita a guardare per terra senza alzare mai lo sguardo: quello che avrò perduto e cercato a lungo lo avrà trovato qualcun altro, all’improvviso e per caso. Tutto cresce come erba, nell’affidabile incertezza dei giorni. Rifletto sul potenziale edificatore del crollo; i resti di una catastrofe, persone che si sfaldano: è indifferente. Nel cassetto di mio padre, gli oggetti a lui cari sono le case di un paese che non ho mai voluto abitare, ma quando è arrivato il temporale è sotto i loro balconi che sono andata a cercare riparo. Ringrazio la paura maestra di misura, i tratti ciechi delle interruzioni, il tono perentorio delle incertezze, la banalità che ha deposto sempre a favore delle cose, la pena struggente per le ombre del corpo. Ringrazio il mio uomo assente: devo anche a lui il mistero delle cose che scopro in queste ore solitarie, e quello mio profondo, al cui appuntamento sono a lungo mancata.

Ansia per il tempo che non basta, e un minuto dopo ecco baratri di ore vuote. Strategia dell’odio, poi uno sguardo dolce scioglie la rappresaglia. Esiste un accanimento ridicolo nelle nostre faccende, tanto è breve la distanza tra l’occhio e la cosa osservata. Nei disegni della vita ci sono progetti chiari per ciascuno. Aspettare con fiducia, rigare dritto ogni giorno, lavorare con tenacia restando umili e di poche parole. Imparare soprattutto ad amare, più che pretendere di essere amati, è già una grande rivoluzione. Infine, imparare di cosa è fatto il pane dei semplici: se penso dove ho cercato la felicità, mi accorgo che bastava spostare un quadro in casa, guarire da un malanno, ritirare il bucato asciutto, ricambiare un saluto. Bastava l’acciottolio dei piatti nei vicoli del paese; persino il solletico delicato di un insetto, per il quale il mio corpo era solo un pezzo di strada tra il cespuglio e la pietra. Non bisognerebbe lamentarsi del bel tempo che non finisce, delle giornate uguali, delle stesse strade percorse. Non bisognerebbe pensare di aver sprecato le ore, nell’inutile rammarico che non ci sarebbe costato nulla spenderle meglio. Anche il tempo vuole starsene leggero, lasciando spazio all’incontro mancato. Alla fine, è nell’orma delle ore vuote che mi accorgo di essere stata felice, perché nell’ordinario c’è tutto ciò che serve, e davvero in questo non c’è niente di ordinario.

Sottrarre parole, ridurre le pause. Dopo aver dipinto le cose, lasciare che una folata di maestrale le restituisca alla completezza del creato. Degli uomini, viene detto meglio in questo modo ciò che furono e che vorrebbero diventare. Nei campi, vivo il tempo importante delle radici. In strada imparo la vita nell’estraneità di chi mi passa accanto. Ode al miracolo della vita, che ricomincia sempre nuovo da miliardi di anni. Le persone che abbiamo perduto ci sembrano immense nel nostro dolore. Sono piccole, invece, nella potenza della vita che ogni giorno ci chiede: “Hai capito?”. Noi rispondiamo di sì. Ma non abbiamo capito. Pedalando al tramonto, attraverso strade di campagna poco battute. Guardando le quinte di alberi che sfumano contro la collina, ritrovo le ocre bionde dei paesaggi fiamminghi, le luci intime di certi interni, la paziente minuzia con cui solo l’artista fiammingo sapeva descrivere ogni particolare. Il bruno della terra, l’incandescenza dell’asfalto, il cromo chiaro dei prati e le cose nel taglio di luce, sono respiri senza ritorno al punto di partenza. Per dipingere la natura bisogna rimanere a lungo nel paesaggio. Scomparsi i segni del transitorio, non restano che il colore del cielo, la calligrafia dei monti, il vapore degli alberi, forse una strada. Il paesaggio mette radici nel sangue come la lingua degli avi. La pittura deve accompagnare alla scoperta di quello che non si vede per eccesso di presenza, parlando di un incontro possibile solo se si abbandonano le pretese dell’approdo. Deve descrivere gli spazi vuoti, considerando l’intervallo come evento concreto. A quel punto, un assorto splendore irradia le profondità dell’universo, restituendolo alla sacra pienezza del visibile.

Tutto è soleggiato e cieco: quanti rapporti senza ombre di cui alla fine ci si stanca; nudità palesi in cui ogni corpo perde forma; qualcosa la cui apparizione è soprattutto la sua scomparsa. Assumere come punto fermo della vita la propria piccolezza, incurabile e sacra. Perseverare nell’estetica del silenzio, che meglio di ogni altra esalta e scioglie il chiasso di un crollo, del proprio soprattutto. Tra campi arati e germogli, festeggio l’esuberante ignoranza di me nel mondo. La luce tra gli alberi è un sangue che ribolle di dedizione. E io qui in bilico, sullo strapiombo di una gioia senza ombre, implacabile. Fumo snello che sale, calmo spargimento di cose che vanno. Un rudere viene a ricordarmi che cercare riparo è il senso della vita. Odore di pane tra le mani strette, il silenzio maestro di finestre cieche, il nuoto dritto di una gazza sui pini. Alla fine del giorno, mi chiedo sempre se posso essere certa che tutto esiste davvero, se è proprio questo il posto in cui voglio stare; se le cose fatte e le persone incontrate sono parte della vita, e non un tremore d’aria calda che si leva lontano da strade vuote.

Fotografie di Eliana Petrizzi

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