Coco, il profumo perfido dell’ironia

La nostra piccola galleria del macabro per questa volta si ferma in Italia, paese che non vanta la tradizione di humour nero del nord-Europa ma che, pure se priva del tocco impietoso di un James Ensor o degli incubi di Kubin, abbonda comunque di umoristi dal filo tagliente quanto una rasoiata. In questa occasione parliamo di un disegnatore straordinario, conterraneo di Pirandello e Guttuso, coi quali ha in comune l’acuto senso ironico e la padronanza di un segno scabro ed essenziale, capace però di infittirsi in virtuosismi da incisore. Le quattro lettere del suo cognome hanno “taggato” con loro corsivo spigoloso migliaia di vignette esportate in tutto il mondo, dagli inizi milanesi degli anni ‘50 fino al 2012, quando a 76 anni, nell’originaria cittadina di Biancavilla, chiude il cerchio di una carriera intensamente operosa.

Essenziale, incisivo, pungente, Giuseppe “Pippo” Coco non ha mai firmato per esteso i suoi lavori, preferendo affidarne la paternità a una sigla che si stampa nella mente, come il surnom di una celebre stilista divenuta sinonimo di eleganza.
E di stile ed eleganza ce n’è a volontà nei suoi disegni dal tratto inconfondibile e nella vorace personalità creativa di un autore non limitabile al solo ambito della vignettistica. L’umorismo raffinato e, al tempo stesso, assai fruibile di Coco ha sempre sostenuto l’intelligenza di un segno spezzato, sicuro, estremamente moderno e identificabile, con cui ha percorso una parabola che lo porta dall’immediatezza dei cartoons per la “Settimana Enigmistica” o la “Domenica del Corriere, ai panels a colori dal prezioso gusto pittorico prodotti per “Playmen”, la testata con cui collabora dall’inizio degli anni Settanta.

Il dominio della materia grafica e il piacere assoluto dell’atto di disegnare, cose che risultano evidenti dalla felicità dei risultati, consentono ai lavori di Coco di mettersi in viaggio in giro per il mondo tramite la distribuzione dalla “Quipos”, raggiungendo il pubblico di “Hara Kiri” in Francia, il quotidiano “El País”, o il britannico “Punch” (giusto per citarne qualcuno).
Nelle infinite varianti di queste gag, assistiamo alla messa in scena di momenti comuni della quotidianità inaspettatamente fatti oggetto di spostamenti laterali, dal piglio quasi filosofico, derivante dalla dichiarata passione dell’autore per i mistici orientali, oltre alle letture giovanili di grandi sabotatori di certezze come Franz Kafka ed Edgar Allan Poe.
La sbrigliata fantasia di Coco è complessa, scettica e incline al surreale, con una linea espressionista che si frange infittendosi di chiaroscuri reticolati, profondi, in cui albergano tracce di segreti meccanismi, strutture, elementi organici incomprensibili. Inevitabile, quindi la sua perfetta simbiosi allo humour nero di stampo anglosassone che caratterizza molta parte della sua ispirazione.
Le tematiche legate allo sberleffo più feroce, all’orrore e a una visione disincantata dell’esistenza, trovano spazio nella collaborazione del finire degli anni ’60 con la rivista “Horror”, il mensile dell’editore Gino Sansoni diretto da Alfredo Castelli e Pier Carpi. Sotto l’egida del magazine consacrato al macabro in ogni suo aspetto, il lato cinico della creatività di Coco troverà sfogo con le vicende tragicomiche di uno dei suoi personaggi più caustici, Arturo.

Dicembre ’69, in un clima politico acceso dagli effetti della contestazione giovanile, la rivista della Sansoni crea una sorte di “colonia aliena” culturale, parlando della contemporaneità attraverso i molteplici aspetti del perturbante. Rivolgendosi al pubblico adulto e sofisticato di Linus o Eureka, “Horror” si muove in maniera trasversale agli schieramenti politici, condendo di una forte vena satirica le sue produzioni di fumetti accompagnate da articoli di firme d’eccellenza come Ornella Volta o Emilio de’ Rossignoli.
In questo contesto di cultura alta e fumetto di massa, Coco propone dal primo numero del dicembre ’69 un personaggio “scomodo” ed eretico in tutti i sensi. Arturo infatti è un anziano signore spelacchiato e paraplegico, con un plaid scozzese sulle gambe e perenni occhiali scuri, segno di una probabile cecità, contraddetta da immagini che lo mostrano alla guida di aerei o altri veicoli di cui le ruote della carrozzella sono parte integrante.

Il patetico, la pietas sono bandite da queste vignette mute dall’asciutto bianco e nero, che sulle pagine della rivista tengono banco insieme ad altri personaggi “negativi”, tutti discendenti dal mondo oscuro dell’horror, ma talvolta votati a una vita editoriale brillante. È il caso della compagnia di freak della striscia Zio Boris di Castelli e Peroni, una reinvenzione dei modelli Hammer film, ripassati per la lezione di Chas Addams e famiglia.
Titolare di una one-man band ispirata dagli aspetti più cupi del mondo che lo circonda, Arturo ride allegramente in contesti drammatici facendosi beffe di ogni moralismo o censura, anzi, sbandierando con orgoglio la propria diversità e i suoi limiti fisici. In modo oggi impensabile per i dogmi del politically correct, l’eroe di Coco si muove sgomitando in una società che non avrebbe posto per eccezioni come lui. Lo possiamo vedere esultare di paternità dietro la vetrina di una Nursery che tra le sue file ha un bebè in carrozzella, oppure lo ritroviamo in una sala operatoria che sembra più un’officina, con medici e infermiere che, chiavi inglesi alla mano, intervengono sui mozzi e i cuscinetti a sfera delle sue ruote.

L’anomalia, il fuori programma, cortocircuitano le regole della realtà infiltrandovi dei comportamenti altri dai risvolti sinistri, o peggio, dalle intenzioni intenzionalmente ferali. Ad esempio un Arturo dal pollice verde cura piantine sul davanzale, tra le quali lo fronteggia un cactus dalla preoccupante crescita a forma di forca. A modo suo bucolico lo ritroviamo in una foresta a maneggiare il detonatore di una bomba piazzata nel nido di una famigliola di uccellini. Le peggiori nefandezze gli scivolano addosso lasciandolo imperturbabile come un Buster Keaton, né la macchinosità della trappola del caso ne intacca il candore da bambino, lasciandolo sperimentare qualche mostruosa mascalzonata senza imbarazzo.

Non può interpretarsi altrimenti l’aplomb con cui Arturo traffica nel proprio laboratorio per costruire un seggiolone da bebè che ricorda in tutto una sedia elettrica, oppure quando si osserva compiaciuto in una specchiera che ha appena verniciato di nero, lasciando libera solo l’inquadratura che gli incornicia il volto in  una funerea foto tessera.
La vita del mensile, habitat perfetto per il personaggio di Coco, si chiude ventun numeri dopo la sua prima apparizione. L’autore gli sopravvive molto più a lungo, producendo per la stampa mondiale album in cui convivono sagacia, ricerca e Pop-Art, assorbendo le rarefatte stilizzazioni di Tadini e Adami,o gli intrecci fibrosi di Zigaina, per implementarle alla propria sensibilità, sfociata nel contempo in pitture materiche dalla cifra personalissima. Un patrimonio creativo che tuttavia non sbiadisce dalla memoria il maligno cigolare della carrozzina di Arturo. Il congegno dal moto perpetuo del terribile vecchietto, una malefatta dopo l’altra, ha trovato il suo sgangherato piedistallo tra i monumenti del weird.

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