L’arte della commedia secondo Fausto Russo Alesi

“Due o tre boccate l’aiutano a darsi l’illusione di poter ancora resistere nell’attesa. Riprende a camminare con rinnovata energia, contando a uno a uno i passi che muove.”
Eduardo De Filippo – dalla didascalia al prologo de L’arte della commedia

“Con rinnovata energia, contando uno a uno i passi che muove”. Sottile avvisaglia delle intenzioni di Oreste Campese (Fausto Russo Alesi), capocomico del teatro. Volendo, sì, del teatro. Il personaggio al quale Eduardo affida la procura per ogni uomo di scena. Nessuno può stabilire con certezza se la sua visita al prefetto, oltre che manifestare la richiesta precisa “Venga a teatro, signor Prefetto!”, affinché la massima autorità cittadina possa presenziare col suo carisma istituzionale alla ripresa di una compagnia appena colpita dalla disgrazia di un incendio che ha distrutto il capannone presso cui si esibiva, nasconda pure il monito perpetuo che in ben altra maniera Campese saprà insinuare nelle crepe vanesie e colme di certezze del “signor Prefetto” (Alex Cendron).

Il prefetto De Caro, ambiguamente e servilmente compiaciuto dal suo segretario Giacomo Franci (Paolo Zuccari), saprà resistere alla gentile e raffinata contestazione mossagli da Campese sin dal primo istante della sua visita? Oppure l’isteria che, poco a poco, col più velenoso dei paradossi, monterà sullo smontamento di quelle certezze, farà riaffiorare le instabilità di un potere privo di idee, ma con l’unica e incrollabile fede a se stesso?

L’inscatolamento scenico che pare provenire dalla narrativa di Franz Kafka, attraverso un movimento che dapprima eleva l’ufficio della prefettura, schiudendo l’imponenza della legge e di un autoritarismo subdolo e imborghesito, per poi rinchiudersi, insieme ai personaggi stessi, in un nucleo protettivo e autodistruttivo al tempo stesso, cifrando in un finale “aperto” (degno della drammaturgia di Eduardo) condotto da un servo di scena, o presunto tale, che da un là iniziale rappresentato da un audio-cameo di repertorio proprio in ossequio a Eduardo De Filippo, con copione alla mano si allinea e guida la “prova”, a rispettosa osservanza della delicata e complessa precarietà, intesa pure come luogo mutevole e sperimentale, del teatro. E il brogliaccio diventa codice del guitto. Il raffronto iniziale, che (non è ovviamente casuale) durante il prologo crea un’ombra sulla quinta di boccascena, disegna un trittico in cui quell’ombra (l’idea, che può essere anche intesa come nodo tra intenzione e risultato), il servo di scena (un uomo) e Campese (guitto) configurano la triangolazione perfetta della meccanica intellettuale e spirituale del teatro.

L’umanità-figurante che si presenta in rassegna davanti al prefetto è attraversata dalle contraddizioni e dalle tragedie private. Il suo passaggio inevitabilmente funge da assedio alle mura immaginarie di un rappresentante del potere che si esprime tale solo nella sua scontata contemplazione. Regione estetica residuale, che poco può adoperarsi per dirimere le faccende umane e per resistere all’invasione di fondo che una folla sterminata conduce alla sua scrivania.

Il piano d’azione che Campese gli presenta per persuaderlo ad apprezzare la sua nuova idea di spettacolo si serve dell’essenza dello spettatore dentro uno degli elementi caratteristici della civiltà contemporanea. “Il buco della serratura”, che per Campese è l’ingresso agli inferi dei dolori collettivi e individuali, richiama il ϑεάομαι, il “guardare”, l’essere soggetto della platea. Laddove il luogo teatrale oscilla tra lo spazio ospitante e quello agente, in nome della completezza etimologica che gli antichi attribuivano al teatro come luogo delle vicende umane dentro un altro luogo. Per certi aspetti, la stessa configurazione che Fausto Russo Alesi e le scene di Marco Rossi realizzano per L’arte della commedia. Un luogo dentro il luogo. A protezione e a provocazione del conflitto, probabilmente, tanto quanto confliggono le dimensioni che irrompono nella quietezza del potere e nell’impotenza della prefettura. Un grande quadro orwelliano ritma una nera cardiologia attraverso un piccolo orologio appeso affianco alla porta dell’ufficio di una prefettura simbolo di un sistema di forze il cui dominio lambisce costantemente il fallimento anziché l’affermazione.

Anna Camerlingo

Dal disagio in verso di vanità del medico curante (Filippo Luna) il cui entusiasmo professionale soccombe alle credenze religiose di chi non gli attribuisce il giusto merito sottolineandone solo gli insuccessi, passando per la morale che Padre Salvati (Gennaro De Sia) vuole tutelare da uno scandalo imminente che chiamerebbe in causa l’efficacia della stessa autorità prefettizia, fino al terribile segreto che la maestra elementare Lucia Petrella (Imma Villa) vuole a tutti i costi rivelare di un oscuro equilibrio familiare il cui interno è rappresentato da un anonimato universale, tutto l’affanno doloroso di un’umanità confinata e irrequieta (altro elemento tipico della commedie cerebrali di Eduardo) grida la sua condizione in perpetua ricerca di soluzione. La condanna non si chiude in se stessa e il prefetto è destinatario di una polifonia di missive disperate e imploranti aiuto. Tuttavia l’autorità non basta, cade essa stessa nell’isteria del timore di non bastare e di non bastarsi. Per il potere costituito la peggiore delle rivelazioni.

Il piantone (David Meden), avviato a una faticosa carriera militare, e il farmacista Gerolamo Pica (Demian Troiano Hackman), angosciato dalla vitale necessità di riottenere la perduta licenza di esercizio della professione, sono il doppio volto picaresco ed esasperato, ingenuo e afflitto, di chi spera a lungo e, per opposto, di chi non spera più, fino al desiderio della morte come ritorsione nei confronti dei soprusi, confidando, in un gesto estremo, nella possibilità di mettere a nudo il potere gettandolo nel pubblico imbarazzo. L’impianto di recitazione collettivo è registrato su uno spartito in ansiosa e angosciata trepidazione, nella piena rappresentazione dell’urgenza e di uno stato esistenziale di necessità.

Si aliena da quel registro una padrona d’osteria (Sem Bonventre) che, di tanto in tanto, attraversa la scena per offrire conforto a chi, stremato o smarrito, trascura la fragilità che, in fondo, potrebbe essere l’unica reale possibilità di rasserenarsi. A riconoscerla, quella fragilità. “Atto unico” che, libero dall’equivoco dell’uomo diviso e unito dalla funzione e dalla sua identità (ne L’arte della commedia l’equivoco è strumentalmente ed esplicitamente rappresentato nei propositi di Campese e nelle inquietudini del prefetto) si attende vada in scena a mo’ di clausola compromissoria tra le vertenze umane. Siano esse tra le istituzioni e chi vi è sottoposto, siano i rapporti esistenziali, fino ai più taciuti e inconfessabili nascondimenti dell’animo umano.

Sotto, il dibattimento sulla condizione del teatro, sull’opportunità delle sue istanze civili, sulla sua ipotetica funzione. Sopra, l’andirivieni di elusi ed esclusi dentro quella dannazione che è la miseria umana. Le tavole del teatro sopportano e supportano. La loro superficie è di materia tenera e rigorosa, soffice e spietata, saggia e indomita, fragorosa e silenziosa. Un carnaio palpitante da cui, non visti, fioriscono sottili e impercettibili sussurri. Solo quando quel luogo si svuota dagli autori, dagli attori, dai lavoranti, dal pubblico, solo allora sono udibili quei sussurri che come tante fiammelle alimentano il fuoco della “Suprema” simulazione. Perché, forse, c’è un’arte della commedia che sorvola ogni manifestazione pretestuosa e si posa a sofferente e paziente sorveglianza del più controverso dei sollievi: quella “verità” custodita sui prosceni della “finzione”.

L’arte della commedia
di Eduardo De Filippo
adattamento e regia di Fausto Russo Alesi

Al Teatro San Ferdinando di Napoli fino al 26 febbraio

Immagine di copertina da teatrodinapoli.it
Foto di scena di Anna Camerlingo

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