Cassandra di Christa Wolf tuona nelle segrete dell’Elicantropo

“Nuove mi giungono nuove,
nuove sventure crudeli
da parte dell’ospite cieco,
se non è la Moria a colpire.”

Sofocle – Coro, Edipo a Colono

L’elastico assicura o trattiene? La sua resistenza è a protezione o incatena? Le corde del tempo sopra la schiena dell’uomo. Come due ali sottili a spuntare dalle scapole. Cassandra si muove tra il perielio e l’afelio del tempo. Origine e destinazione restano invisibili, agganciati e lanciati in punti oscuri e sfuggenti. Là, dove l’occhio dell’intelletto e della percezione non può arrivare. Soltanto i suoi, di occhi, solo il suo sguardo, eletto ad alienata e marginata contemplazione, soffre i dolori della parola pronunciata che deraglia da quel binario su cui scorre la sua sofferente direzione e si scaglia fuori da quel tempo.

La polarità di Cassandra è dal futuro al passato. Un’inversione a cui essa stessa è stata condannata, ma il cui inganno alla divinità che ha emesso la sentenza è custodito nella sua passione di donna, di essere umano, di creatura divisa tra quell’umanità e le violazioni del dogma. Sul suo codice perfettamente in equilibrio tra il testo e la recitazione si sviluppa la Cassandra di Cecilia Lupoli sopra l’adattamento tratto dal romanzo di Christa Wolf, per la regia di Carlo Cerciello (aiuto regia Aniello Mallardo e assistente regia Mariachiara Falcone). Al Teatro Elicantropo di Napoli fino al 26 febbraio.

In un costume (la cui realizzazione è a cura di Triunfo Dance World) che porta in scena una Cassandra in versione latex-cyber – che la sua figura punk rievochi uno dei segni delle avanguardie all’interno della frattura all’ombra (o alla luce) degli anni della caduta del muro di Berlino? – e sulle musiche di Paolo Coletta, Cecilia Lupoli danza una parola generata da una polifonia di suoni e di luci (Cesare Accetta e scene di Andrea Iacopino) scanditi da una dark nuance che inscena un’opera sul mito in versione postmoderna. L’indagine dell’adattamento non sembra allontanarsi dalle intenzioni che spinsero Christa Wolf a scrivere la sua Cassandra.

“Cassandra. La vidi subito. Lei, la prigioniera, mi imprigionò, lei, oggetto essa stessa di fini che le erano estranei, si impadronì di me. (…) L’incanto ebbe subito effetto. Credetti a ogni sua parola, provare una fiducia incondizionata era ancora possibile. Tremila anni – dissolti. Così il dono della veggenza, che il dio le aveva conferito, si mostrò duraturo, e svanì soltanto il verdetto di lui, che nessuno le avrebbe creduto”

Da Premesse a Cassandra, Christa Wolf

“Ich bleibe”: “Rimango”. E Cassandra rimane, resta. Il suo rinchiuso non è l’apparente condanna all’obbedienza alla maledizione, ma l’autonoma e disperata resistenza a una misteriosa e inquietante deriva universale, all’interno del luogo in cui il suo spirito viene provato dalle vicende reali e dalle sue concretezze. Cassandra fronteggia la causa e l’effetto. La prima gli è nota per dono maledetto, il secondo le appare nella lucida intuizione che trae forza dall’esperienza della prima. E il dispositivo perpetuo è compiuto. In esso si manifestano le tremende sollecitazioni a cui il mito viene sottoposto. In tortura di sé e per sé. La funzione si accende sotto l’andamento della variabile indipendente. La “memoria-paura”, la “memoria-sentimento”, in nome dei meccanismi che ab origine identificano i congegni del racconto nell’essenza del mito.

L’interpretazione di Cecilia Lupoli si coglie dai suoi occhi immediatamente in luce di opposizione a tutto il nero che la circonda (trucco di Vincenzo Cucchiara e acconciature di Team Leo). Le sue movenze “marziali” fanno sì che il suo corpo reciti in palpitazione, la cui armonia sembra seguire la norma di una frammentazione. La linea d’azione non sembra affidata, ma solo in apparenza, a spostamenti significativi. In realtà il suo movimento è un’oscillazione corporea che detta la sopracitata polarità che la mette in relazione con le due direzioni del tempo (consulenza movimenti Dario La Ferla). Il suo segmento spaziotemporale rivolge la rievocazione dei personaggi esterni alla sua identità (quasi una costituzione di singoli es ad hoc) e le restituisce luogo a procedere secondo l’allineamento di gesto e parola.

Se in antichità le città erano cinte dalle mura, qui è Cassandra a percorrere il corridoio immaginario stretto tra le recinzioni che non la separano da un altro luogo, ma la stringono in un costante ed estenuante corpo a corpo con l’oblio da cui il suo verbo vorrebbe chiudere le porte all’intera umanità per evitare che questa possa cadervi per sempre. Le mura di Cassandra conoscono soltanto l’assedio. Troia subì l’assedio per desiderio di conquista e di espansione di un re, Berlino (a proposito di Christa Wolf) si vide imposta l’assedio per stabilità. Il muro che la divise in due vi fece incursione per ritorsione, per separare due mondi nel mondo e per soggiogare tutti quelli che per disperazione avrebbero tentato di varcarlo per quello che si sarebbe rivelato un assedio inverso.

L’elastico assicura o trattiene? Prima che si spezzi, di Cassandra si dice che il suo ultimo dolore sia quello di aver rinunciato all’amore. Nonostante Enea, prima di lasciare per sempre Troia, le abbia chiesto di partire con lui, lei le oppone il più amaro dei rifiuti. Pare che non possa amare colui che diventerà un eroe. Nessuno saprà mai se ad aver prevalso sia stata l’invidia degli dèi o l’umanità sorda che sopraggiungerà più spietata di ogni sopruso. Se Cassandra ne sa qualcosa, porterà con sé questo atroce segreto.

Immagine di copertina da senzalinea.it
(Foto di scena Guglielmo Verrienti)

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