L’ESTATE

di Eliana Petrizzi

Scrivo dell’estate perché davvero mi pare non esista niente di più stupefacente. Voglio farne il ritratto un piccolo segno alla volta, come si dipinge il volto di una persona amata con cui è importante abitare a lungo, prima di iniziarne il quadro. Scrivo di questa frenata lunga del tempo che inizia a marzo con l’emozione inaugurale dei germogli. Poi arrivano i piedi scalzi sui pavimenti, l’odore dell’asfalto e del vento tra i muri delle case aperte, il profumo dell’erba tagliata al mattino ed arsa al tramonto. Di sera, gli spari di una festa svegliano la colomba che mi dorme accanto; ne vedo il profilo disegnato in controluce dalla luna, il suo corpo raccolto respira sollevandosi appena, come una nuvola sul mare. Sì, la bella stagione è arrivata: nelle ore lunghe, negli appuntamenti che si rinviano, in certi abiti che fanno le donne nude senza essere svestite. Dal balcone di mia madre si vede la parte vecchia del paese, col viale di ciottoli che era un tempo l’alveo del fiume. Conto le finestre aperte delle case, con lampade sfiorate da una figura che non si affretta. Per i vecchi davanti al bar, la vita è un raccolto che dà sempre qualche frutto. Ogni giorno dopo pranzo prendono una sedia e stanno all’aria aperta, censori impeccabili di cani e passanti, di uno straccio al balcone prima bagnato poi asciutto, di uno che prima stava da solo e adesso è in compagnia.

Mezzogiorno: l’incenso di una frittata e il flauto delle tortore. La certezza è di essere perfettamente felice, senza sapere perché e senza volerlo scoprire. Immobili il cardo e l’orbita vuota della finestra. Lì un grigio di strade, l’aria calda che brilla sui tetti, il silenzio disperato dei frutti maturi, una luce delicata che procede di vuoto in vuoto. Una figura che passa non mi guarda, ma ha negli occhi una pace che è più di un saluto.

Il colore del mare dietro pini ed eucalipti è di un turchese carnoso, che a tuffarti lo immagini denso come la polpa di un frutto. Ragazze ancora bambine giocano a riva; i corpi tesi in quel breve momento di perfetta grazia che è la giovinezza. Non sanno niente della loro bellezza, ma qualcosa pure iniziano a capire nel modo in cui si inarcano tirandosi indietro i capelli. Eppure, a guardarle con attenzione si intravedono il fianco che si allarga, la carne che si increspa in quella pigra morbidezza di madri mediterranee. I ragazzi che giocano con loro già lo sanno, e non le lasciano andare.

Capisco quello che posso comprendere e quello che non mi è dato chiedere. Trascendenza orizzontale vuol dire cercare l’altezza intorno, raccogliere le cose offerte dal cammino, scoprendo tra loro misteriose concordanze. Perdo la forma e il nome, la coscienza di essere e la speranza di diventare. Il mio corpo, così, non è più dolore di carne, ma tepore di pane. Disordine nelle borse, disordine in casa. Il bucato del giorno si raccoglie in un catino. In una borsetta sta tutto il riparo dal fresco della sera. I giorni sprecano le ore mentre io, a guardare il sole sul mare, ringrazio per questo sperpero che cura. Case chiare, desolazioni tonificanti, le campane della chiesa, la banda lungo i vicoli paese, vapori di pastafrolla dal bar in piazza, la grazia salvifica di un saluto gentile. Le strade si svuotano, chiudono i negozi; scende sul paesaggio un silenzio che prepara nomi nuovi per le cose. Mi stendo sul letto e respiro regolarmente, pensando all’avvicendarsi dei giorni come a un calmo movimento di nuvole. In fondo, anche oggi troverò ciò che serve, e se qualcosa mancherà ringrazierò per le importanti lezioni del poco.

L’ora più bella per passeggiare è verso le 18: il sole inclina un raggio radente che trasforma le strade in torrenti di luce, su cui passano solo lunghissime ombre. C’è in quest’ora qualcosa di struggente: si prepara un silenzio che dice ‘Ancora, e mai più’. D’estate, mi piace attraversare le strade dei piccoli paesi: quelli con le case vecchie, al centro ancora le botteghe del salumiere e del barbiere. A quest’ora il caldo forte è passato, la sera si avvicina fresca e luminosa. Davanti al circolo arrivano l’elettricista, il meccanico e il calzolaio, che siedono a fissare la strada vuota. A un certo punto l’elettricista dice che a lui piacciono di più le sere come questa, quando non c’è chiasso, né rumori né gente che va avanti e indietro. Che poi, aggiunge il meccanico, a che serve andare mille volte avanti e indietro? La strada è così corta che se giri la testa una volta a destra e una sinistra il giro è finito, e un giro qui basta e avanza.

I ragazzini a giocare nei cortili, e le madri come lupe sui balconi a controllarli, mentre loro da basso strillano, corrono, si urtano e si maledicono senza criterio. Il paese gli appartiene e la loro gioia è furibonda; se fanno un danno nemmeno chiedono scusa. Ognuno tra gli adulti nasconde bene una pena che non dice. A loro invece, la cosa peggiore che può capitare nella vita è quando il pallone finisce oltre un cancello dall’altra parte della via, e i proprietari sono in vacanza.

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