Dark Comedy, spassosi spaventi

Costruire una storia gotica richiede un preciso dosaggio d’ingredienti per poter creare atmosfera, straniamento e soprattutto paura. Attraverso di essa la nostra visione dell’esistenza mostra la sua debolezza lasciandosi sovvertire dai mostri dell’inconscio, le figure ancestrali che abitano i bassifondi mal illuminati della ragione. Il perturbante ha la funzione di ridefinire i confini della “normalità” opponendovi il suo teatro oscuro, seducente e repulsivo a un tempo.

Schematizzando il meccanismo, si può dire che l’impianto horror si fondi su uno scenario realistico e riconoscibile in cui va a deflagrare il contatto con l’altro, un incontro dagli effetti ben riusciti quanto più la frizione tra i due mondi è inaspettata e traumatica. Le strutture narrative di Stephen King sono esemplari di questo gioco al contrasto, grazie agli scenari dettagliati quanto un plastico ferroviario i cui verrà inscenato il conflitto con l’anomalia di turno.

L’essenziale è che il tutto rispetti i termini del contratto stipulato col lettore: da un lato conquistarne la fiducia rispettando i canoni del realismo più convenzionale, dall’altro sconvolgere queste stesse certezze attraverso l’invenzione, assurda, inaspettata, destabilizzante. Ciò che fondamentalmente va evitato a ogni costo è svelare al pubblico gli ingranaggi del gioco, indebolendone così la credibilità e lasciandoli esposti privi di forza e fascinazione a uno sguardo ormai distaccato e scettico.

In breve, il terrore non va d’accordo con lo sberleffo, la cui anarchia può sgonfiare e minimizzare qualsiasi incubo con una risata liberatoria. Ciononostante esiste un filone poco battuto nell’ambito del gotico che, passando dalla fedeltà al genere al suo ribaltamento, esplora un terreno insidioso ma fertile, in cui il concime dell’ironia da vita a commistioni che reinventano i codici in un prodotto nuovo.

Edgar Allan Poe ha frequentato i dissacratori lidi dell’umorismo con Tales of the Grotesque and the Arabesque, spostando il focus della sua narrativa tragica e ossessiva su situazioni che pur rimanendo aberranti sono però interpretate in chiave satirica. Un uso dell’iperbole al servizio di una comicità amara e sociale, per certi versi affine a quella di Mark Twain. Laddove Poe mantiene una relazione filiale col macabro attraverso il ricorrere di archetipi (il Diavolo, la deformità fisica), nella produzione del viennese Gustav Meyrink l’ispirazione orrorifica e l’ironia si coniugano perfettamente in un amalgama dove un elemento sostiene l’altro rafforzandone la natura specifica.

Il segreto del castello di Hathaway racconta di una maledizione secolare che pesa sui eredi della famiglia, colpendone ogni membro al ventesimo anno d’età con un incontro destinato a spegnere in lui ogni gioia di vivere. Il mistero fa discutere un consesso di gentiluomini finché la capacità medianica di uno dei presenti non dà il via a un dialogo serrato, quasi da sceneggiatura cinematografica, in cui chiarirà a sorpresa l’arcano. L’origine del maleficio è una beffarda causa molto terrena, resa imprevedibile dall’impianto drammatico che l’autore del Golem ha orchestrato, arricchendone di richiami occulti l’atmosfera plumbea e opprimente.

Pessimismo, satira e gusto dell’eccesso sono alla base della poetica di Ambrose Bierce, narratore e giornalista americano, padre di quel concentrato di perfidia che è il Dizionario del diavolo. I racconti del terrore di Bierce sono diventati un modello di riferimento per ogni sceneggiatore, come appare evidente in An occurrence at Owl Creek Bridge, schema mutuato da molti film di cui Il sesto senso di Shamalayan è l’interpretazione più riuscita. Alternando scritti in cui lo stile caustico prevale sul macabro, Bierce ci ha regalato parabole come Oil of Dog sostenute da un pessimistico humour nero.

In questa storia del 1890, trasposta da Filippo Scòzzari nel fumetto omonimo del ’76, ci viene presentata un’impresa familiare tanto intraprendente quanto sordida, rivolta alla fabbricazione di un elisir ottenuto dalla distillazione di randagi bolliti. Il sarcasmo feroce dello scrittore si esprime attraverso la voce narrante di Boffer, rampollo dei coniugi Bings, che in mancanza di materia prima per il proprio prodotto non esitano a ricorrere ai feti abortiti da Madame Bings alle giovani clienti. Il contrasto tra la crudezza della vicenda e la cinica nonchalance della sua descrizione mette all’indice la miseria morale della società americana, nascosta dietro falsi miti di successo.

La rapacità della stampa e i suoi rischi professionali sono protagonisti del racconto At Last, The True Story of Frankenstein in cui Harry Harrison ci riporta al mondo degli spettacoli itineranti e i suoi mostri da baraccone. Qui, un giornalista troppo ficcanaso scopre il segreto di un imbonitore dall’accento teutonico, diventando vittima del suo stesso ricatto. La leggendaria figura del mostro di Frankenstein è rievocata da Harryson in un contesto scalcinato, descritto con abilità pittorica per mostrarci una creatura spogliata di fascino e destinata  a una sorte bassamente commerciale.

Lo stesso tipo di operazione “riduttiva” lo si ritrova nel brillante Il ciarliero e Jack  dell’inglese Clive Barker. Allontanandosi dalla consueta propensione all’iperbole, Barker confeziona una storia d’infestazione maligna che spicca nei suoi Books of blood per il tono dimesso e umoristico. Le provocazioni del demone Ciarliero tormentano da anni lo stolido Jack, un mortale meno sciocco di quanto voglia apparire. Il braccio di ferro tra i duellanti si trascina con i rassegnati “Que sera sera” dell’uomo che passa sopra ai dispetti, le minacce e le distruzioni dell’altro, per portarlo al suo gioco facendogli compiere una violazione delle norme infernali. Alla fantasia delle offese sempre più crudeli e nevrotiche del Ciarliero, tipiche della vena orrida di Barker, si oppone un muro di gomma comicissimo fatto di indifferenza e ottusità e solo il finale rende merito alla beffa, orchestrandola con un misurato crescendo.

Il pastiche di personaggi e citazioni che anima il serial a fumetti Legue of extraordinary gentlemen di Alan Moore e Kevin ‘O Neill, ha attinto al serbatoio della narrativa vittoriana per estendersi poi anche al cinema e all’immaginario più contemporaneo, in una contaminazione enciclopedica per estensione e per filologia. Utilizzando delle figure radicate nell’immaginario fantastico dei lettori, Moore ha inventato un universo cross-over dove convivono tutti gli eroi e i modelli letterari più disparati in un territorio di varianti narrative pressoché infinite.

In questo mondo trasversale, troviamo la squadra capitanata da Mina Murray con i suoi compagni Allan Quatermain, Thomas Carnacki e il mitico Orlando di Virginia Woolf invischiati in una insorgenza di culti C’thulhiani nella tranquilla campagna inglese, un Worcestershire frequentato da smidollati nobilastri, zie amanti della caccia e impeccabili maggiordomi.

È evidente il tributo al mondo frivolo e divertente dell’umorista P. G. Wodehouse, ibridato con una geniale contorsione nelle trame cosmiche e cupe del solitario di Providence, H. P. Lovecraft. L’impresa impossibile riesce perfettamente e si sviluppa in un racconto breve inserito nella graphic novel Black dossier del 2012. Muovendosi nello spirito del serial, il sofisticato innesto di linguaggi combina universi espressivi profondamente diversi, in cui l’understatement britannico di Wodehouse funge da contraltare smitizzante e scettico agli orrori di Lovecraft, senza peraltro ridicolizzarli.

I mostri più terribili possono fare il loro dovere anche nelle commedie, dunque, alimentando reazioni antagoniste alle tensioni dell’horror più canonico. Un processo forse eretico, talvolta, ma liberatorio e, come insegna Moore, portatore di un’irresistibile creatività.

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