Nino Vingelli, maschera neorealista

Non si esagera se si considera Nino Vingelli come una delle maschere della tradizione attoriale napoletana. Liberi dalla costrizione di definire “spalle”, “caratteristi”, “comodino” certi attori nati per fare gli attori, non ci si può convincere che di questo, che quelli come Vingelli (all’anagrafe Salvatore) hanno trasmesso l’arte dell’essere attori durando fino a un secolo, mai vinti, mai sconfitti, mai sorpassati, perché dentro la regola per la quale una maschera, quando è tale, basta a se stessa.

Ci sono attori che codificano la norma fisiognomica. Vingelli è tra questi. Un’anima di attore ferma e saggia, dentro un corpo scatola, un mezzobusto impettito davanti al tentativo di violare la propensione pensierosa verso le cose. Una figura mista, dura, spigolosa, col verbo essenziale e duraturo della Napoli accomodante e laconica.

I personaggi interpretati da Nino Vingelli non sono soltanto l’apparente costante del figuro guappesco, come ne La sfida, di Francesco Rosi, al fianco di Vito Polara (José Suarez), come ne L’oro di Napoli, o nel camorrista di Piedone lo sbirro, in guardinga contrattazione con il poliziotto Bud Spencer, o nei panni di altri personaggi con la punteggiatura criminale, ma sono pure, e soprattutto, la contemplazione, la sopportazione, nella più intima e amara delle constatazioni, dell’inaffidabilità e della debolezza dei rapporti umani. L’arte interpretativa di Nino Vingelli conduce un filo unico, narrato col suo timbro “dentale”, ferroso, ma al contempo indomito, quanto disciplinato, prima di tutto da se stesso e verso se stesso. La regola di Vingelli non cambia, ma si trasforma, pure nei personaggi capovolti, come per il finto prete di Cafè express, o per “l’infame” umiliato ne I guappi di Squitieri.

Se col personaggio de La sfida, grazie al quale Nino Vingelli ha vinto il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista, e nel piazzista de I magliari, sempre diretto da Rosi, emerge l’aculeo severo dell’imperturbabilità di anime nate per vivere tra le durezze della vita, in Napoli milionaria, nella versione cinematografica, Vingelli, nei panni di un garzone accomodante e servizievole, assume i toni della dolcezza e della grazia, in un impianto di poche battute, ma sufficienti a marcare la vicenda col passo garbato della Napoli cauta e discreta di prima e dopo la guerra. Non mancano, da Vingelli, le prove importanti anche dal teatro. Nel 1967 interpreta Napoleone Botta ne Il contratto di Eduardo De Filippo, recuperando le sue origini di attore teatrale, nonché di cantante. Pare avesse pure l’inclinazione per la pittura, incoraggiato da alcuni celebri pittori suoi amici.

In una Napoli sfitta, postbellica, presso l’ex lanificio militare, in Santa Caterina a Formiello, sopra i gradini di Via Sanità, dentro Borgo Sant’Antonio, passando per via Ponte dei Granili, con lo sguardo corrucciato, con gli occhi scuri sotto le sopracciglia dure e spesse, con la voce larga, tipica di una generazione di presenze indispensabili nella città in bianco e nero, Nino Vingelli attraversa settant’anni di cinema, a custodia di un’apparente manovalanza, fianco a fianco ai più grandi registi e attori della storia del cinema contemporaneo. Il neorealismo non sarebbe stato così potente e indimenticabile senza i Nino Vingelli.

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