Bugie dalle gambe lunghe o verità dalle gambette piccole?

di Marco Antonio D’Aiutolo

“Una verità sacrosanta, con certe gambette piccole piccole, [è] costretta a camminare lentamente, a passetti impercettibili. Per arrivare, impiega Dio sa quanto, ma… arriva!”

A un anno dalla nascita della mia rubrica Esistenze affrancate, ho creduto necessario scrivere un articolo sul dovere di non mentire. Come ho avuto modo di mostrare, franchezza e affrancamento sono strettamente interconnessi. La nota frase del Vangelo di Giovanni “la verità rende liberi” è più che eloquente. Tuttavia il mio intento è meno trascendente e più di natura etico-politica.

Ho scelto di introdurre questo articolo con le ultime battute di Le bugie con le gambe lunghe, una commedia di Eduardo De Filippo del 1947, inserita nella Cantata dei giorni dispari. In breve, si tratta di un intreccio di tradimenti, matrimoni, amori accomunati da bugie, ipocrisie e inganni. Una simile situazione dà modo a Libero Incoronato, il protagonista, di fare uso della menzogna a proprio beneficio. Egli è innamorato di un’ex prostituta, Graziella che, ricambiando il suo amore, desidera rifarsi una vita con lui. Libero rifiuta di sposarla per paura dell’opinione pubblica. Ma quando si innesca quel valzer di bugie tale da rendere impossibile distinguere menzogna e realtà, anch’egli, cadendo nella tentazione della bugia, racconta di aver accumulato una discreta fortuna e di aver deciso di sposare un’aristocratica del nord. Graziella viene accettata da tutti, i quali non si interrogano sulla verità di quanto detto. Libero ne trae una morale: “Se vuoi trovarti, sai c’he a’ fa? Devi legare l’asino dove vuole il padrone”. “Non dire mai la verità. Lasciale in fondo al pozzo, e quando dici le bugie, le devi scegliere tra quelle che sono di gradimento al tuo padrone, perché se non piacciono a lui sa che fa? Lle spezze ‘e gamme e dice ca so ‘ccorte e tu, con il tuo povero asino, corri sperduto e svergognato per il mondo. Se, al contrario, sono interessanti per lui, le aiuta, le fa correre e non le fa fermare più. Pensa che ce ne sono certe che camminano da quando è nato il mondo”. Sembra quasi una giustificazione della “bontà” della menzogna, inevitabile quando si è costretti dal pregiudizio ipocrita della gente. Anzi, se è a fin di bene, mentire può essere un’eccezione al dovere di dire la verità. Bisogna, quindi, legare l’asino (che rappresenta orgoglio, onore e diritto) dove vuole il padrone?

Una simile tesi è stata espressa, a fine ‘700, da Benjamin Constant. Il filosofo francese, in Des réactions politiques, accusa Immanuel Kant di non riuscire a concepire la possibilità di un conflitto fra doveri, mostrandosi insensibile alle tragedie umane. A suo avviso, se un assassino a caccia di un nostro amico che si è nascosto da noi ci chiedesse informazioni su di lui, per Kant la legge morale proibirebbe tassativamente di mentire per salvarlo. In effetti, Kant, discutendo sul casus necessitatis, sostiene che tra il dovere perfetto di denunciare un delitto e quello imperfetto del bene verso un padre, se questi fosse colpevole, il figlio dovrebbe sacrificare il secondo al primo. Nell’articolo Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani, comparso sulla rivista Berlinische Montasschrift nel 1787, rispondendo a Constant, il pensatore tedesco conferma che lo stesso vale tra il dovere di dire la verità e la benevolenza per gli amici. Si tratta di una storia di amicizia tradita?

Il filosofo di Königsberg riprende la distinzione tra verità in senso oggettivo e in senso soggettivo. In Metafisica dei costumi l’essere vero o falso di una tesi è oggettivo, non è in nostro potere, né appartiene al territorio del diritto, che comprende cose o azioni dipendenti dalla nostra volontà. Soggettivamente, la verità è più propriamente veridicità o sincerità e dipende dalla disposizione a dire ciò che si ha in mente. Chi mente annulla la propria dignità di agente morale, si trasforma in maschera vuota, perché con la falsità nega il senso della sua capacità di comunicare i pensieri.

Tuttavia, in Metafisica, Kant osserva anche che per avere una menzogna, giuridicamente perseguibile, non basta un discorso insincero, a cui l’interlocutore può credere o no: occorre che la falsificazione sia volta a privarlo di ciò che gli spetta di diritto. Per cui Kant avrebbe potuto usare questa scappatoia e sottrarsi dalla critica di Constant: la bugia detta all’assassino non è menzogna in senso giuridico, perché non gli spetta quell’informazione. Costant avrebbe approvato, in quanto è convinto che il dovere di dire la verità, attuato nella sua universalità astratta, distruggerebbe la società. E può essere applicato mediante un principio intermedio restrittivo: nessuno ha diritto a verità che danneggino gli altri. Kant, invece, patrocina senza eccezioni il dovere di non mentire. La menzogna danneggia “l’umanità in generale, in quanto rende inutilizzabile la sorgente del diritto.

Maria Chiara Pievatolo raccoglie alcuni articoli kantiani, compreso quello che stiamo analizzando, nel libro Sette scritti politici liberi. In una nota critica, osserva che l’intransigenza di Kant era dipesa dall’epoca in cui i due filosofi discutevano: la legittimità del potere era incrinata, scossa dal terrore rivoluzionario, dalla violenza della reazione e da tentazioni autoritarie di nuovo conio. “Chi vive in tempi confusi, deve rimanere saldo sui principi, per non legittimare forme di manipolazione e prevaricazione, a dispetto delle sue buone intenzioni. Chi mente a fin di bene deve coerentemente riconoscere la stessa facoltà anche agli altri, esponendo tutti alle mistificazioni del potere: la politica non può rinunciare alla trasparenza, se vuole rimanere entro i limiti della giustizia”.

Quindi, sebbene l’esempio usato è di carattere privato, il contesto della polemica è politico. Pievatolo argomenta nel modo seguente: ammettiamo che un potere politico cominciasse a discriminare una minoranza e prospettasse la possibilità dello sterminio, cosa dovrebbe fare il filosofo se non prendere sul serio il compito di dire la verità e denunciare? Non potrebbe di certo suggerire ai cittadini di rassegnarsi: tanto sarà lecito nascondere gli amici perseguitati, mentendo ai sicari del regime per proteggerli. La strategia della contestazione pubblica è politica e universale e mira a proteggere tutti i discriminati. Invece, chi mente per salvare l’amico non estende la propria responsabilità “al di là dei confini del suo giardino”, si chiude nel particolarismo, non si chiede che mondo sarebbe quello in cui la verità fosse ad accesso limitato e la menzogna facoltativa o addirittura doverosa. La strategia dell’elusione e della menzogna protegge solo i perseguitati che hanno la fortuna di imbattersi in persone disposte ad aiutarli. É la strategia della moltitudine asservita, dove i singoli sono resi incapaci di agire politicamente e tentano di aggirare la tirannide, che non possono affrontare a viso aperto. Inoltre, se gli individui si avvalgono del diritto di mentire, devono accettare che lo stesso venga usato, con più forza, dal tiranno per rendere i sudditi deboli, ignoranti e soli. La verità come proprietà permette a uno stato, che controlla i mezzi di comunicazione, di attribuire a se stesso il diritto di mentire, cioè di informare i cittadini esclusivamente in modo conforme all’interesse di chi è al potere: “sarebbe ancora uno stato di diritto?” Ma “l’idea di una trasparenza ad accesso riservato – scrive Pievatolo – è una contraddizione in termini: la trasparenza è universale o non lo è.”

In un famoso sermone, attribuito a Martin Niemöllor, si legge: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. È una situazione simile al caso usato da Constant. La scelta di un esempio privato per presentare un tema di natura pubblica può sembrare infelice, ma ha la fortuna di costringere a confrontarsi con una situazione in cui dire la verità è più difficile, perché si è così emotivamente coinvolti e, come Niemöllor, concentrati sul particolare, da dimenticare il mondo, oltre il giardino. Se è vero ciò che ha osservato un’altra studiosa di Kant, C. Korsgaard, che nessun assassino, seriamente intenzionato, si presenterebbe mai alla nostra porta, dichiarandosi tale, è anche vero che, non denunciando la menzogna, o usandola a nostro beneficio, si permette alla stessa di avere gambe lunghe. Si diviene complici di un sistema corrotto e si offre il fianco al padrone. De Filippo lo chiama l’uomo nero, il mammone, che fa leva sulle paure più recondite e può essere tenuto a bada solo assecondandolo. Ma di più: quel mammone siamo noi a crearlo. La rinuncia della trasparenza conduce alla perdita di senso della parola stessa e così della denuncia e del libero pensiero. Dire la verità diventa impossibile. Non si tratta solo di negarla, ma anche di strumentalizzazione e contraffazione dei fatti.

Non bisognerebbe mai chiudersi nel particolarismo, senza sforzarsi di assumere un punto di vista universale e affrancato, favorendo, così, uno stato in cui un assassino, seriamente intenzionato, si presenti alla nostra porta, dichiarandosi tale. È dovere di tutti (non solo dei filosofi), alzarsi in piedi e dire la verità. Essa avrà anche “gambette piccole piccole”, sarà anche “costretta a camminare lentamente, a passetti impercettibili. Per arrivare, impiega Dio sa quanto, ma… arriva!

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