FABIO

Seduto sulla panchina bevevo un integratore dopo aver corso sei chilometri intorno al parco. Avevo un programma: sei chilometri, poi dieci minuti di pausa e poi altri sei. Mentre ero assorto, un bimbetto di poco più di un anno mi si avvicina, tenuto per mano, mi passa una foglia, come fosse un regalo.

– Grazie piccolo, come ti chiami?

– Non ho sentito! – balbetta.

– Ho detto, come ti chiami?

– Non ho sentito! – ride, chiaramente sfottendo.

Guardo la ragazza che lo tiene per mano, le sorrido stranito e lei mi dice che non sa come mai faccia così. Sorrido ancora, mi alzo dalla panchina, una carezza al bambino stronzo e inizio a correre. Corro come se non ci fosse via d’uscita, come se correre fosse l’unica possibilità che avessi, corro come se fosse questione di vita o di morte.
Affrontavo tutto così, il lavoro, i sentimenti, ogni singola scelta. Avevo un po’ di tossine da smaltire. Erano stati due giorni a pieno regime. L’acme si era raggiunta venerdì con l’inaugurazione della casa. Per il miei quarant’anni mi ero regalato la casa che volevo. Comprata a trentanove a dire la verità, ma quasi un anno di lavori per sistemarla come volevo. Una festa riuscita, un catering di grande qualità. Il tempo ci aveva aiutato e anche il grande terrazzo.

Una volta a casa, prima di spogliarmi per la doccia, appoggiai la foglia sul comodino, ai piedi dell’abat-jour.
Sul cellulare, quattro telefonate e 32 messaggi. Non controllai. La corsa mi aveva fatto bene. Ero in forma, ero contento. Avevo da prepararmi per una conference call, clienti inglesi che avevano molti soldi da spendere e molti cazzi da rompere. Stampai una ventina di pagine di appunti e mi diedi da fare. Li avevo in pugno, erano miei, dovevo solo stare attento a non forzare troppo, ma non era il tipo di errore in cui imbattevo. In mutande e scalzo camminavo intorno alla grande scrivania di cristallo del mio studio, sottolineando le cose che non avrei dovuto dimenticare di dire. Passai così quasi tre ore.
Poi mi recai all’appuntamento delle diciassette della domenica.

– Buonasera Fabio – mi disse con la solita cordialità.

– Buonasera – dissi accomodandomi.

– Come è andata la settimana?

– Molto bene, devo ammettere. Venerdì una gran festa per la casa nuova, sapesse. Tutti felici, si sono divertiti tutti e a me ha fatto piacere. Sa che nel mio lavoro i rapporti sono tutto e ho invitato tutta gente che sì, mi è amica, ma che in qualche modo può anche tornare utile. Sembra una cosa brutta, invece no, non lo è. Non per me. Sono a tanto così per diventare uno di quelli che conta sul serio, è il momento di fare il salto di qualità. Sino a ora è andato tutto come avevo previsto, sono diciotto anni che lavoro per questo, che il mio unico obiettivo è questo, lo capisce? Lo so che ora sta pensando di dirmi che i rapporti di amicizia andrebbero coltivati senza fini lavorativi, che l’amicizia, un po’ come l’amore, dovrebbe essere disinteressata. Tutte palle. Ognuno di noi vuole qualcosa. Io voglio l’orgasmo, non voglio una che scelga le lenzuola o cosa devo mangiare o dove devo andare nel fine settimana. Non voglio un amico che mi telefoni alle tre di notte per dire che è nella merda, perché ha un assegno da coprire o che la moglie lo ha tradito. Voglio che alle tre di notte mi chiami Anna, Betta, Sara, Ludovica, Giorgia o non lo so chi altra per dirmi che vuole vedermi. Lo capisce? Lo sa perché io vengo di domenica da lei, pagandola forse il doppio? Perché la domenica tra le diciassette e le diciotto non succede niente. Anche i mentecatti che guardano il calcio, in quest’ora sono smarriti. Io vengo da lei. Occupo l’ora più inutile e vuota della settimana a fare una cosa che mi fa bene. Anche per merito della sua disponibilità…

– Bene Fabio, ma io volevo sapere rispetto a quello di cui stiamo parlando nell’ultimo mese, come va. So bene, ormai da qualche anno che la sua vita è appagata – disse con grande pacatezza.

– Ah, ho capito. Ieri sera sono stato con Lina. Siamo stati a casa mia. Siamo stati bene, poi però ho voluto riaccompagnarla a casa. Non credo che l’abbia presa bene. Ma avevo da fare stamattina, dovevo andare a correre e poi lavorare per domani e non volevo intoppi. Mi capisce, non è vero?

– La capisco Fabio, quello che invece mi è poco chiaro è perché non risponde alla mia domanda e invece mi parla di Lina e del fatto che stamattina avesse deciso di correre.

– … rimasi in silenzio.

– Non ne vuole parlare? Guardi che abbiamo tempo.

– Ora forse dovrei andare.

– Non è così, ma se vuole andare è libero di uscire

– Fumo una sigaretta al giorno. La sera dopo cena. Mi rilassa. Il catering, sapesse che roba! Hanno portato tutto e poi ripulito tutto. La mattina dopo non sembrava che ci fossero state settantatré persone a far baldoria in quella casa. Uno specchio. Stamattina, al parco mentre mi riposavo prima di riprendere a correre un bambino mi ha regalato una foglia. Credo che per lui fosse un bel regalo, quando me l’ha data sorrideva felice. Gli ho chiesto come si chiamasse più di una volta e lui mi ha risposto che non aveva sentito. Era evidente che mentisse. L’ho portata a casa la foglia e mentre mi lavavo via il sudore, continuavo a pensare a quella frase: “Non ho sentito! Non ho sentito!”, lui non mi sentiva perché a me di lui non fregava un cazzo, questa è la verità. Sentiva il mio disinteresse per lui, per la sua foglia e per quella che lo scorrazzava in giro.

– Però mi ha detto che la foglia non l’ha buttata, anzi l’ha portata a casa.

– Sì, perché mio padre mi ha sempre detto che quando si riceve un dono va tenuto. Ancora oggi non so perché dicesse così, il fatto è che non riesco a non seguire certi dettami. Dicevo, questo bimbo neanche l’ho guardato bene in faccia, non saprei descriverglielo e non lo riconoscerei anche se gli urtassi contro, così anche la sua accompagnatrice, che forse era la sorella, la zia, la tata, la mamma, nel caso una ragazza madre.

– Questo la fa dispiacere?

– No, è una constatazione. Neanche amara, solo il racconto di un fatto. Mera cronaca.

– Credo che il nostro tempo, per oggi, sia concluso. La attendo la prossima domenica.

– No, sono al mare il prossimo fine settimana. Dobbiamo saltare.

– Perfetto Fabio. A presto.

Arrivai con qualche minuto di ritardo all’appuntamento con gli altri. Erano lì al solito tavolo. Avevano già ordinato. Mi versai il prosecco e brindai con loro. Restammo lì anche per la cena. Una serata ordinaria. Mi chiamò Lina ma non risposi, volevo solo tornare a casa. Una volta a letto guardai la foglia e iniziai a sudare freddo, mi prese la tachicardia. Controllai i messaggi, erano diventati quarantatré, nel frattempo. Erano tutti uguali: sei una merda. Erano tutti di mio padre. Mi addormentai sereno.

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