Corti e orti

di Eliana Petrizzi

Può essere stimato o biasimato, risultare odioso o simpatico, ma proprio non capisco cosa abbia detto Achille Bonito Oliva, giorni fa su “Repubblica”, di così blasfemo: “Pensare l’artista come un demiurgo, produttore isolato d’immagini, vuol dire non riuscire a comprendere l’esistenza di una condizione filosofica dell’arte e dell’artista, calata all’interno di un contesto molto articolato, suddiviso in lavori specializzati”. Ma non è questo – chiedo – un dato di fatto? Un artista che vivesse isolato in un villaggio ai confini del mondo, dotato di uno straordinario talento tecnico e/o poetico, lì morirebbe solo e ignoto, a meno che un giorno un viaggiatore o un giornalista non lo scoprisse, e attraverso una catena di comunicazione mediatica fatta di ‘lavori specializzati’ non lo portasse ad essere conosciuto e apprezzato, e di qui con ogni probabilità inserito nel così discusso “sistema dell’arte”. Ad ogni buon conto, soli ed ignoti sarebbero finiti pure Michelangelo e Leonardo, se non avessero incontrato sul loro cammino monarchi, principi, papi e mecenati. Un sistema dell’arte di fatto è sempre esistito, con nomi, strumenti e forme differenti, ma nella sostanza poco è cambiato. Prima c’erano le corti, oggi esistono orti a numero chiuso, ai quali si accede solo tramite intermediazione del critico o del curatore, che invita a Biennali più o meno prestigiose, organizza e decide l’esito di Concorsi a premi, residenze e mostre personali.

Dinanzi alle affermazioni di Bonito Oliva molti sono insorti, accusandolo di aver non solo negato l’esistenza dell’Arte, ma di aver considerato l’unicità, la fantasia e la creatività individuale dell’artista un ingranaggio irrilevante, in una complessa costruzione nella quale intervengono il critico, il gallerista o mercante (che spesso coincidono), il direttore di museo o di fondazione, i mass-media, il collezionista, e infine (forse) il pubblico. Questo però non vuol dire che l’autodeterminazione dell’artista non conti o che la libertà creativa non abbia più valore: vuol dire, a mio parere, riconoscere che nel percorso di crescita di un artista influisce un sistema di comunicazione che a volte supporta, altre volte genera una ipervalutazione culturale che può superare di gran lunga la qualità intrinseca dell’artista proposto.
Ora è chiaro che in questi meccanismi incappano sia l’artista veramente bravo, che grazie a questo sistema ha avuto la possibilità di essere conosciuto da un’ampia platea, sia fenomeni francamente incomprensibili, creati dal nulla da accorte operazioni di marketing culturale. Se però, citando il filosofo e critico d’arte Dino Formaggio, accettiamo che arte sia tutto ciò che gli uomini definiscono tale, dovremo pure abituarci all’idea della grande beffa, ricordando che la parola “arte” condivide l’etimo proprio con “artificio”. Ma l’inganno dura poco: non serve un osservatore esperto a capire che l’artista di talento resiste nel tempo, laddove i fenomeni shock sopravvivono il tempo di una moda. Si tratta di affari riservati a curatori egocentrici, mercanti, collezionisti pilotati da fondi d’investimento e da non meglio precisate operazioni di mercato, dove gli artisti sono ora superstar inarrivabili, ora vittime di un meccanismo da cui vengono sfruttati e presto abbandonati. Ma si tratta anche di un processo in cui l’artista è inserito a pieno titolo nella doppia veste di vittima e di carnefice. Personalmente vedo in giro, oltre ad una quantità di arbìtri imbarazzanti, artisti molto bravi all’inizio del loro percorso ma che poi, sfiancati dalle impietose fruste del successo commerciale, hanno perso luce e sangue, portando avanti ricerche monotone ed annacquate. Ma vedo anche tanti artisti geniali che meritano pienamente il successo di cui godono proprio grazie al ‘sistema dell’arte.’

Non è vero che la fruizione di un’opera d’arte non è più una relazione che coinvolge la sensibilità e l’intelletto dello spettatore, ma unicamente fattori come la reputazione o la fama dell’autore, il luogo dove l’opera viene esposta e la stampa di cui gode, al fine di produrre una notizia appetibile per un apparato comunicativo che opera più o meno come chi si occupa delle performance dell’audience televisiva o degli influencer su Instagram. Di certo, e a prescindere da qualsiasi posizione personale, riconoscere il cambiamento facendone motivo di crescita è la sola azione che vale oggi la pena intraprendere. Alla fine dei conti, tutto ciò che l’arte tenta a suo modo di dire e di fare rappresenta un aspetto comunque vivo del mondo, che merita di essere raccontato e vissuto. Direi anzi che limitarsi a biasimare certi fenomeni non solo non toglie nulla al loro diritto di esistere, ma sottrae qualcosa a chi si rifiuta di accettarli come parte integrante della nostra epoca.
Migliaia di collezionisti continuano ad acquistare le opere degli artisti che seguono e che amano, anche se non si tratta dei vip acclamati dai circuiti chiusi dell’art system. E, se lo fanno, è perché nei lavori che scelgono trovano una risposta emozionale, qualcosa che riguarda profondamente la loro vita e la loro sensibilità, vi trovano della bellezza, forse della speranza. E se ne fregano altamente delle dichiarazioni di Bonito Oliva, e di tutti quelli come lui che se hanno potuto inventarsi un movimento ed una carriera, non ci sarebbero mai riusciti senza il valore irriducibile degli artisti (in parte sconosciuti) che a suo tempo chiamarono nei propri orti.

(Nella foto, Mimmo Paladino, Mathematica)

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