La bellezza senza frontiere di Sense8

Dopo la rivoluzione di Matrix e altre prove cinematografiche di minore impatto, le sorelle Wachowski (insieme a J. Michael Straczynski) tornano a sconvolgere il mondo della fiction con la serie innovativa targata Netflix che dalla prima stagione del 2015 cambia le regole ai tradizionali canoni della comunicazione.
Scoprire il mondo di Sense8 è come fare un tuffo nella dimensione arcobaleno della multi-cultura e delle sfumature di genere. Se si rinuncia a resistenze pregiudiziali immergersi nel suo universo può essere un’esperienza che lascia frastornati, ma con una consapevolezza nuova che fa percepire come proprio il respiro del pianeta in cui viviamo.

Su un piano formale Sense8 è definibile fantascienza, del tipo interessato allo sconfinamento delle barriere culturali e di genere come nella produzione di Ursula Le Guin (vedi il celebre ciclo di Anarres), o James Tiptree jr. (al secolo Racoona Sheldon), o ancora come la Joanna Russ di The Female man. L’ambizioso progetto è attento a problematiche sociali e di identità sessuale, utilizzando elementi autobiografici provenienti della trasformazione in donne dei due registi, più istanze legate alla stagione di protesta degli anni ’70, così come l’atmosfera stessa della fiction che nel suo insieme rimanda a un certo clima crudo e fiero tipico di molto cinema dell’epoca. Questo calderone di difficile trattamento è tenuto insieme da uno sforzo produttivo e registico che incastra in un montaggio vertiginoso i segmenti di vita degli otto protagonisti principali, inventando soluzioni visive virtuosistiche e appassionanti.

L’asse portante del racconto, lento a dipanarsi, richiede un atto di fiducia da parte dello spettatore, introdotto nella storia da una sigla variopinta e multietnica priva di rimandi al plot, se non il suggerimento per immagini che la nostra realtà è più caleidoscopica e intimamente interconnessa di quanto percepiamo. La vertigine che si prova seguendo questa sequenza alogica di scene e di time-lapse dal sapore pubblicitario è seguita da una serie di eventi misteriosi riguardanti alcuni individui braccati, dalle strane capacità telepatiche che si riveleranno poco alla volta. Una batteria di scene ci introduce nelle otto linee narrative che si intrecciano per dare corpo a personaggi dalle vite diversissime e apparentemente inconciliabili, che scoprono collettivamente di far parte di una nuova (e temuta) branca dell’evoluzione umana, quella dell’Homo Sensorium.

Siamo lontani anni-luce dalle baracconate hollywoodiane degli X-men, qui per contenuti e linguaggio si respira aria adulta, così come esplicite e spregiudicate sono le scene di sesso di qualunque latitudine, sia per geografia e orientamento. Un parterre internazionale di attori tanto bravi da sembrare autentici, l’uso di una fotografia diversa per ogni set (ben otto location mondiali), ma accomunata da riprese poco artefatte e quasi documentaristiche, dà un tratto caratteristico di verità alla storia in cui evolve il primo contatto, la conoscenza e l’interscambio dei suoi protagonisti. Tutte figure appartenenti a universi lontani in tutti i sensi, dicevamo, dal freddo grigiore teutonico di Wolfgang (Max Riemelt), ladro duro e incallito da una vita sul filo del rasoio, al colorato e ultratradizionale Mumbai del medico Kala (Tina Desai), imbrigliata nelle regole soffocanti del suo paese, al fittizio paradiso dell’attore di successo Lito (Miguel Angel Silvestre), omosessuale celato, così come al contrario la transgender Nomi (Jamie Clayton) e la compagna Nita vivono a San Francisco la loro storia lesbica alla luce del sole. Mondi agli antipodi sono pure le vite del poliziotto di Chicago Will (Brian J. Smith), strenuo difensore della propria integrità e Riley (Tuppence Middleton), ragazza islandese allo sbando tra brutte storie di droga e amicizie pericolose. Infine chiudono il cerchio l’espressiva trattenuta di Sun (Doona Bae), esperta di arti marziali, figlia deferente di un ricco magnate di Seul e la solarità calda, umanissima e indomita del Kenyota Capheus (Aml Ameen), detto Van Damn, che vive con coraggio la sua rettitudine e povertà nelle insidie di una violenta Nairobi.

Il dipanarsi delle vicende passa racconta la progressiva coscienza dell’esistenza dell’altro, che è metafora di un ecumenico principio di fratellanza a dispetto di ogni etichetta o condizione sociale, introducendo alla scoperta dell’intrigo internazionale di cui gli otto sono nel mirino. L’estrema disinvoltura della sceneggiatura che padroneggia e interseca l’ordito complesso dei vari fili, la bellezza assoluta dei vari set (un impegno produttivo enorme), il montaggio sofisticato di riprese a spalla che coniuga tecnica e veridicità, portano a una graduale immedesimazione nelle esistenze dei protagonisti, che – dato il tema – si finisce col sentire una parte di sé.
In uno scenario a tratti inaridito di serial che clonano i propri stereotipi, Sense8 è una vera boccata d’aria che (conflitti mondiali permettendo) dovrebbe svilupparsi in cinque stagioni per esplorare i mille fili del suo ordito con un messaggio di consapevolezza e tolleranza. Nel nostro tormentato nuovo millennio, ancora un concetto di sapore quanto mai utopistico.

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