Champagne, di Peppino Di Capri

di Alfonso Tramontano Guerritore

Non c’è altro modo se non quello di onorare i momenti, per fissarli nella memorie e gratificare il gusto, se anche fosse amaro, lasciando sospeso il sapore rimasto, da un calice senza tempo.  Che poi suona bene la parola “Champagne”,  giusto tocco di Francia per uno dell’isola dei Faraglioni, che di nome fa Peppe, scivolato sugli anni d’oro della musica pop italiana, coi night e la fine degli amori, le luci sul porto, le feste a colori e  la faccia ondeggiante di occhialuto chansonnier.

C’è il tradimento di una sera, il sentire a due di una festa di fine anno, e i tavoli fermi come scogli, col desiderio a galleggiare  tra i ricordi, in una stanza che sa di segreto. E’ già tutto finito, il bicchiere è più stanco di me che non riesco a dormire, tradito  due volte dalla veglia eccitata del doponotte, e da lei.

La bellezza di un sorso da soli, ora è evidente,  non ha niente di romantico. E’ una tensione esasperata che cerca riferimenti, col corpo che recita distacco e il mare che rimbalza tra i massi, contenuto a fatica nelle pareti dello stomaco, senza uno straccio per la nausea o gli anticorpi necessari alla vertigine. Un’ora fa avevo la sua compagnia, e adesso tutto è messo via, da una finestra fisso il vuoto e i camerieri sono ancora vivi dopo la strage. Potrei fumare, ma le visioni avrebbero buon gioco della mia finta resistenza, l’assenza è solida. Sarebbe bello ritornare alle radio a cassette, fermare il nastro quando è troppo. Da piccolo non credevo avesse senso festeggiare una fine da solo. Per questo, bevo.

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