Intervista a Franco Coda su ‘Ballata per Cappuccia’. Una sperimentazione dedicata a Domenico Rea

di Davide Speranza

Da Spaccanapoli a I ragazzi di Nofi, passando per Gesù, fate luce, Il fondaco nudo, Pensieri della notte e Ninfa Plebea, il mondo immaginato da Domenico Rea nei suoi libri è popolato dai dettagli di un’umanità nascosta, antica e ferocemente viva, dai borghi di popoli sanguigni e scartavetrati, dai bambini che crescono nel tripudio dell’adolescenza e dalle guerre quotidiane di un’epoca – il Novecento, individuato tra storia e metafisica – che oggi ci sembra lontana. E invece i temi che don Mimì trattava nei suoi romanzi, racconti e saggi sono vicini, anzi vicinissimi a questa nostra contemporaneità lacerata e scomposta.

Nei prossimi giorni – il 20 e il 21 dicembre, ore 21 – al Piccolo Teatro Porta Catena di Salerno va in scena Ballata per Cappuccia, un progetto teatrale di Franco Coda, da un’idea del compianto Franco G. Forte (che tanto spese gli ultimi anni della sua vita per la rinascita della figura di Rea, fino alla pubblicazione di Cappuccia per Oedipus edizioni), con la regia di Franco Alfano ed Elena Scardino, testi di Elio Goka, Franco Alfano e Marco Milone. Sul palco – accompagnati dalle musiche di Cattivo CostumeAntonio Grimaldi, Ciro Girardi, Marco Milone, Roberta Izzo, Gabriella Landi, Anna Landi, Sebastiano Di Paolo.

L’impalcatura drammaturgica segue l’immaginario del racconto Cappuccia, un testo pressoché sconosciuto dello scrittore nocerino-napoletano, da cui poi Michele Luciano Straniero trasse il libretto per un’opera musicata da Giorgio Ferrari. Siamo nel pieno della Seconda guerra mondiale, all’interno di un carcere che un tempo era una fortezza. Ma qui non incombono i Tartari di Dino Buzzati. Bombardamenti e grida tuonano nell’animo del protagonista, Tori Cappuccia, un ergastolano da lungo tempo detenuto nel carcere di San Pantaleone, a Nofi, che viene preso d’assalto dalle truppe alleate. Mentre gli altri fuggono, Tori decide di non abbandonare le mura che lo hanno castigato per mezzo secolo. La sua inadeguatezza al nuovo mondo che lo attende lì fuori sembra essere la metafora della nostra società. Eppure il racconto è del 1958. L’ideatore dello spettacolo, Franco Coda (agitatore di rassegne teatrali sperimentali a Salerno con Giuseppe Bartolucci e promotore del Teatro A), prova a scendere nei dettagli dell’operazione su Cappuccia e non solo.

Franco, oggi abbiamo ancora bisogno di parlare di Domenico Rea e delle sue opere. Perché?

La mia conoscenza di Rea risale al periodo della gioventù, fin dall’inizio dei miei studi mi sono sempre sentito quasi in dovere, da nocerino, di procedere alla lettura di questo autore. Sul perché oggi si debba parlare ancora di Rea basta guardare la qualità di scrittura, la capacità immaginativa e la rapidità di composizione, in lui troviamo riferimenti assolutamente calzanti della contemporaneità. Quando con gli altri coinvolti nell’operazione al Piccolo Teatro Porta Catena, ci siamo avvicinati a questi materiali e in particolare a Cappuccia, è risultato evidente come vengano fuori situazioni vicine a quelle che viviamo oggi. Pur se l’ambientazione di Rea è tutta giocata nel periodo storico legato al secondo conflitto mondiale e all’immediato dopoguerra, gli argomenti e gli elementi che troviamo sono caratteristiche che continuiamo a vivere: lo sfondo bellico è una situazione che ci accomuna, anche se la guerra di oggi la viviamo con una certa distanza, per una sorta di miopia civile, una miopia sociale. La giudichiamo lontana, ma in realtà ci siamo dentro. Mi capitava di riflettere sul fatto della condizione di Cappuccia, ergastolano in carcere, sulla sua decisione di non muoversi e di non scappare. Vi si addensa il senso e il significato della libertà, un desiderio d’essere liberi che Cappuccia risolve in quel modo, in una situazione che ci vede molto vicini, come clima, all’emergenza pandemica. Arriviamo allora a capire che la cosiddetta libertà non significa avere la possibilità di andare in giro a vuoto, con o senza obiettivi, ma sia piuttosto un senso di rispetto complessivo nei confronti degli altri, della propria posizione in relazione alle posizioni altrui. Cappuccia alla fine resta lì in carcere e continua a rimuginare sul suo trascorso, sugli avvenimenti che si sono susseguiti nella sua esistenza e ricava una dimensione tutta sua, privata, altra condizione che si avvicina a quella che è stata la risposta dell’Occidente nel post covid. Come se ci fossimo richiusi sul privato, e dove anche l’apertura e la necessità di movimento è in realtà attività chiusa su se stessa, in recinto.

Come nasce il progetto?

L’operazione su Rea parte da un pensiero condiviso con Franco G. Forte. Quando lui mi fece vedere i materiali, aveva già pubblicato insieme a Raimondo Di Maio e ad altri un libretto su Domenico Rea. Nella sua attività aveva rimesso mano su don Mimì. Mi fece vedere questi documenti, mi disse delle difficoltà di metterli in scena, aveva tentato di lavorarci. In qualche modo allora presi un impegno con lui. Mi interessava aprire uno squarcio su don Mimì, su quel clima, su quell’ambientazione, quella dinamica sociale e quelle condizioni che hanno una risonanza e comunanza di contenuti tra l’oggi e quello che avveniva ieri; aprire questo squarcio significa aver presente il mondo di Rea e tutte le sue opere. In questo primo atto che presenteremo a Salerno troveremo anche una poesia di Rea, L’ubriaco, una delle più riuscite e felici delle sue liriche, che corrisponde a pieno titolo alla condizione di Cappuccia. La sua condizione in carcere ha tratti di somiglianza con il Woyzeck buchneriano. Troveremo anche una scena che rimanda a Ninfa plebea.

Strategica anche la scelta di rappresentare la performance al Porta Catena?

Qui ho trovato, con Franco Alfano e le altre diverse associazioni che gravitano intorno allo spazio, un’occasione, un territorio fertile e vicino ad un certo modo di intendere il teatro, ovvero ad un’attenzione sul processo creativo, piuttosto che sul rimanere fermi alla ripetizione di modalità standardizzate. Ci siamo messi alla ricerca di una visione espressiva che vada in direzioni diverse, che vada a scompaginare l’approccio consuetudinario. Modalità e tipo di teatro che purtroppo vedo un po’ mancare sul territorio, e riguardano un minimo di originalità, novità, una cucitura differente dei fatti produttivi teatrali. Il 20 e 21 sarà un primo passo di avvicinamento a questa operazione. Un processo che speriamo possa avere possibilità di continuazione, anche solo per immettere nelle proposte culturali del territorio elementi dissonanti rispetto a quello che vediamo normalmente. Non mi riferisco solo a Salerno, ma a livello nazionale. È come se ci fosse un periodo in cui la riflessione teatrale, quella che una volta apparteneva alla cosiddetta avanguardia e al teatro di ricerca, si fosse assestata su meccanismi consolidati ma privi di azzardo.

C’è possibilità di recuperare un vero e costruttivo sperimentalismo?

La possibilità di riprendere la vedo in pieno. Il problema è legato alla necessità di riuscire a tenere un tanto di continuità della proposta. E riprendere un percorso sul versante dell’innovazione che nel passato ha pure registrato tappe significative.

A partire dalla città di Salerno, dunque lei intravede la possibilità di una svolta decisiva?

Il rapporto con il Piccolo Teatro Porta Catena ha significato molto, sono entrato in relazione con giovani e professionisti tenuti al margine delle produzioni culturali perché appunto magari la loro riflessione di partenza li porta ad essere su un territorio di confine. Nel suo percorso millenario il teatro si è costituito grazie ad un continuo ripensamento, un continuo rifondarsi, una rielaborazione che può andare avanti all’infinito. In questo senso sicuramente qui può esser avviato un percorso che metta in moto relazioni possibili da parte di tanti altri soggetti. Un moto con attenzione al sociale, all’aspetto formativo, informativo, oltre che di composizione di valore estetico e teatrale. Adesso mettiamo in piedi questa prima azione che si svilupperà ulteriormente nel corso del 2024, un lavoro ancora su Cappuccia, ritornando ai materiali editi con Franco Forte. Più che alla riproposta della breve opera lirica di Ferrari e Straniero, che può sempre comunque essere realizzata, siamo interessati  a riportare l’attenzione su un autore troppo presto archiviato ma che resta centrale nel canone letterario del Novecento. Si potrebbe approdare alla pubblicazione di un fascicoletto e godere dell’intervento di critici e intellettuali che conoscono bene Rea e che potranno certamente aiutarci a sviluppare ancora più in profondità il nostro percorso sul grande scrittore

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