All’ombra della Mole – incontro col neogotico piemontese (seconda parte)

Intervista a cura di Fabio Lastrucci e Vincenzo Barone Lumaga

Prosegue e si conclude  l’intervista in due parti al movimento STRAN iniziata la settimana scorsa. Si approfondiscono gli argomenti emersi nel primo colloquio, evidenziando radici culturali e proiezioni nel futuro di questo gruppo di autori, coraggiosamente impegnato in una valorizzazione del proprio bacino culturale, lontano dalle lusinghe omologanti della globalizzazione e dalle grettezze dei nazionalismi più ottusi.

Croce e delizia di scrivere horror in Italia. Cos’è cambiato? Cosa può ancora cambiare?

Samuel Marolla:
Croci e delizie, come dite voi.
Da un lato vedo un underground molto vivace, con alcuni editori indie che osano un po’ di più, anche con un occhio all’estero (solo una sbirciata, però; essere presenti realmente all’estero è un’altra cosa, e noi italiani non ci siamo ancora, ma la strada è giusta). Dall’altro vedo purtroppo un’editoria mainstream che ha definitivamente abbandonato l’horror in generale, figuriamoci quello ambientato in Italia. Non aiutano i pochi autori mainstream che hanno paura di usare la “Brutta Parola che Inizia per H” e quindi parlano di thriller con toni dark, di fantastico, persino di weird, tutto pur di non pronunciare l’impronunciabile. A me invece piace proprio l’impronunciabile…
Vedo molti autori validi, e questo lo trovo positivo, ma sono (siamo, dai) un po’ sempre gli stessi, e questo invece è negativo. Non mi sembra di vedere nuove voci fresche, brillanti e giovani, e mi incazzo perché gli aspiranti autori di vent’anni dovrebbero essere pieni di idee e avere voglia di devastare tutto soprattutto in un genere iconoclasta come l’horror; e invece le cose che vedo passarmi davanti sia come lettore che come “addetto ai lavori” sono spesso banali sia nella forma che nel contenuto.
Vedo positiva un’apertura a prodotti extra-letterari underground come il fumetto, il gioco di ruolo o il cinema, in cui forse c’è ancora più fermento che nella letteratura. Una strada che mi piace è la contaminazione degli strumenti. Quello che invece non va ancora, e che dovrebbe cambiare, è che oggi questi strumenti sono spesso a compartimenti stagni. Ad esempio bisognerebbe che i (pochi) produttori e registi horror si affidassero agli scrittori horror per i concept, invece che scriverseli da soli o farseli scrivere dal proprio cugino. Solo questo potrebbe mettere il turbo ad alcune produzioni indie. Mi parlo un po’ addosso: nel 2017 ho scritto il mio primo film grazie all’opportunità che mi ha concesso un produttore più illuminato della media, e la combo ha funzionato alla grande, soprattutto all’estero. Ognuno il proprio mestiere, insomma. Ma in Italia si girano decine di horror indie con concept raffazzonati: se invece gli operatori si rivolgessero sistematicamente agli scrittori professionisti, sono convinto che i risultati migliorerebbero esponenzialmente.

Esiste secondo te un retroterra cultural-popolare per un weird d’ambientazione piemontese? Esistono autori che ne hanno in precedenza tratto ispirazione?

Danilo Arona:
Esiste, certamente. “Tutto il Nero del Piemonte” , citando il titolo di un’antologia del 2007 edita da Noubs e curata da me e dall’amico Angelo Marenzana, pesca proprio da lì. È solo un esempio, va da sé, altrimenti dovremmo scendere nell’enciclopedismo e verificare con serietà quanto il cosiddetto weird piemontese debba a scrittori (meravigliosi) quali – i primi che mi vengono alla mente – Buzzati, Soldati, Tarchetti. È ovvio che esistono interdipendenze, rapporti, collegamenti antropologici, ma sono pure convinto che gli scrittori nati in Piemonte, tanto quelli del passato che i “giovani”, attingano non così consapevolmente a un immaginario collettivo che è molto più filogenetico che scolastico. Sono le “radici” di questa regione, magica e misteriosa, che ama nascondersi e che in qualche caso sa essere anche crudele. Indizi primari che giacciono quasi sepolti e tornano alla luce dell’avvedutezza magari con una semplice quando non casuale frequentazione di luoghi, piccoli e oscuri paesi, campagne, colline, persone, castelli che incombono. Coincidenze del vivere quotidiano… Il Piemonte è un paesaggio, ma soprattutto della mente. Se posso citare l’Arona di oltre 10 anni fa che dissertava su uno dei romanzi più emblematici di tanto immaginario, L’estate nera di Remo Guerrini, autore e giornalista ligure che vive a Vignale Monferrato, in Piemonte si “respira” il mistero. Guerrini stesso mi confessò che i suoi “romanzi della notte” sono nati soltanto ed esclusivamente nel paese di Vignale: «… non trovo nulla di meglio a livello d’ispirazione di questa zona del Monferrato. Persino Strega, che si svolge a Triora sulle montagne liguri, l’ho scritto a Vignale. Non me ne chiedo il perché, ma gli autunni monferrini ti regalano sensazioni e colori che ti entrano e ti dipingono dentro. Poi mi escono storie e idee, e in modo particolare su queste colline escono le mie paure». Già, e tutto funziona ancora — meravigliosamente — a distanza di molti anni: il male, la paura, il nero in una parola, il fantastico, il terrore – o se volete, il weird – che scaturiscono, pur se sublimati in forma artistica, dal verde e dal sole delle nostre colline. Laddove regnano noia, ordine e ipocrita tranquillità, si consumano delitti silenziosi. I fantasmi non raggiungono la pace agognata e pure legittima, le magie – soprattutto quelle nere – tornano a perpetuarsi tra gli antichi riti delle Masche e contemporanee esplosioni di pazzia. E si può ancora riproporre un teorema mai sopito: quello di una misteriosa, attitudine al Male – maiuscolo, come nel New England – che si riflette in una provincia ubertosa e collinare, immobilizzata in un finto spot televisivo, dove si finge, dove non ci si ricorda, dove si recita. All’inizio degli anni Novanta, Ferdinando Camon provocò un mare di polemiche, scrivendo a proposito di Pietro Maso e dei fattacci di Montecchia di Crosara, che la provincia era una fabbrica di killer: Pupi Avati, autore come pochi altri medianicamente legato all’anima segreta della provincia, battezzò questo malessere  “sindrome del sole e del silenzio”, in grado di colpire indifferentemente spiriti malati e artistici e capace di spingere tanto a delitti inspiegabili e da dimenticare subito quanto a suggerire storie per niente catartiche. Killer e scrittori animati dallo stesso genius loci, possibile? Diciamo, probabile. Ma per identificare gli occhi che lampeggiano dalle nostre colline occorrono più scrittori. Laddove forze dell’ordine e analisti improvvisati non riescono a percepire in tempo reale il dramma di una poveretta perseguitata per anni da un maniaco in un piccolo centro del Novarese e a impedirne l’incredibile morte annunciata da un sacco di tempo, servono le sensibilità degli scrittori. Da Cogne al mostro di Firenze, da Castelluccio dei Sauri ai satanisti lombardi, ci vuole più letteratura, più immaginazione, più voli pindarici. Soprattutto perché lo scrittore ricorda. Sulle colline del Monferrato, ad esempio, l’oblio è caduto su troppi delitti irrisolti. C’è una lunga scia di sangue che parte dal marzo del ’65, quando a San Salvatore Monferrato furono uccisi in un cascinale una casalinga e suo figlio, e arriva sino ad anni più recenti con il giammai risolto delitto del Capodanno 1993 ai danni di Antonella Guarnero in quel di Castelletto Merli. Tutto questo “nero” stagnante – perché irrisolto – si fonde e si salda con quell’ipotizzato, nella domanda, retroterra cultural-popolare, (aggiungerei folcloristico, contadino e “leggendario”), dove il discrimine tra cronaca nera e mito diventa più sfumato. Ecco perché gli Stran sono necessari, oserei dire indispensabili. Quando un bel po’ di anni fa andavo alla caccia di case seriamente “infestate” in Piemonte, trovavo quasi sempre miti all’apparenza leggendari ma in verità contaminati con autentici fatti di sangue e veri morti. Ne ho scritto a lungo e le tracce di questo lavoro sono disseminate un po’ ovunque, tra la carta e la Rete. E forse arriva l’ora di regalare dignità letteraria a tante storie dimenticate nella polvere degli archivi mentali.

Nei tuoi libri mescoli generi diversi e contigui che vanno dal giallo, al noir, all’horror. Quali sono i tratti che ti identificano di più come scrittore (e come lettore) in questo tipo d’ispirazione? Che soluzione letteraria hai trovato per farli convivere in forma armonica?

Fabrizio Borgio:
Ormai sono dell’idea che il concetto di genere, specialmente in ambito internazionale sia diventato un’etichetta relativa e da tempi non troppo sospetti. A questo riguardo cito sempre Infinite Jest di David Foster Wallace, un classico della letteratura di fine XX secolo che a ben vedere sfrutta candidamente alcuni topoi della fantascienza sociologica ma nessuno si prende la briga di definirlo un romanzo SF. Quindi è in corso un meticciamento molto interessante che coinvolge anche autori italiani (Avoledo e Mari per fare due nomi di un certo peso) e tale meticciamento è in corso anche nella mia scrittura. L’utilizzo di tematiche estratte dalla narrativa di genere, sia essa giallo, noir, horror o weird mi sono pienamente funzionali dal momento che ritengo la forza della metafora superiore a qualsiasi narrazione realista. Certo, l’esplorare cosa stiamo diventando come società, come umanità e come realtà nazionale mi porta a privilegiare il noir e l’horror dal momento che paura e inquietudine sono sentimenti stigmatizzati da un lato e alimentati dall’altro. Analizzarsi ed evocarli è quindi imprescindibile dalle mie tematiche. Considerata la condizione difficile della narrativa di genere nel nostro paese per me è fondamentale innalzare idealmente l’asta a ogni libro tentando di aumentare il livello qualitativo e far accostare il lettore mainstream alla letteratura di genere.
Lavoro molto sullo stile, elemento pienamente funzionale anche alla trama. Un linguaggio il più possibile ricercato e attento senza cadere nell’intellettualismo fine a se stesso. Una mediazione tra l’italiano e le parlate locali, elemento ancora molto presente sul territorio che contribuisce ad aggiungere espressività inedita alla narrazione. C’è poi il meccanismo dell’indagine, preso dal giallo, che permette di sviscerare e approfondire tutte gli aspetti della trama e infine la storia. Faccio sempre uno sforzo non indifferente nel cercare di costruire una storia che si declini in maniera non troppo stereotipata.

 Cosa pensi delle più recenti rivoluzioni della letteratura weird nel terzo millennio? Ritieni che in questo proliferare di contaminazioni tra i generi più classici ci siano ancora dei tratti comuni a caratterizzare una storia di vero orrore, indipendentemente dall’indossare le vesti della fantascienza macabra o del gotico nostalgico?

Maurizio Cometto:
 Domanda veramente impegnativa e non facile. Ho sempre pensato che il vero orrore, o meglio ciò che più ci fa paura, si nasconda dentro di noi. Intendo al fondo di noi stessi, nel nostro inconscio. La letteratura horror, ancor più quella del terrore, ha sempre cercato di proiettare queste paure al di fuori, in un certo senso rendendole più innocue, esorcizzandole. Più queste proiezioni si allontanano dalla verità della loro radice, che sta dentro di noi, più risultano innocue e meno emozionanti, meno efficaci. Ogni periodo storico ha le sue paure, diciamo così, più comuni, più diffuse. Attualmente viviamo in un’epoca di grandi e veloci cambiamenti, e, di conseguenza, di grande confusione. Questo coinvolge anche la letteratura e tutte le forme d’arte: commistioni, contaminazioni, revival, senza che nulla di davvero originale venga fuori. Forse dipende dalla paura più grande che si è insinuata dentro di noi: quella per il futuro. Fino agli anni ‘80 il futuro ci sembrava bello, pieno di possibilità, di cambiamenti positivi. Oggi il futuro ci terrorizza. Per questo forse, per una sorta di contrasto, in letteratura ci si guarda indietro e si rimischiano le carte: è quasi una forma di rifugio, usiamo i “topoi” classici del weird come coperta di Linus, come approdo comodo perché conosciuto (anche e soprattutto dai lettori). D’altro canto, per analogia, e con maggiore coraggio, proliferano le distopie, che però non sempre traggono origine da idee e visioni originali. Ciò che manca, forse, è una letteratura che affronti in modo efficace gli orrori del presente, mostrandoli nella loro nudità e verità. Per quello che riguarda la mia esperienza di scrittore, ho l’impressione che più scrivo seguendo il mio inconscio, più i pezzi che vengono fuori, in qualche modo, hanno un impatto emotivo forte. I segreti di ciò che ci succede, sia a livello personale che sociale (del resto sono le persone che formano la società), stanno laggiù. Vanno tirati fuori con coraggio, vanno analizzati alla luce del sole, vanno mostrati. Solo così, probabilmente, si riesce davvero efficaci, e si può dare un contributo a rinnovare la coscienza delle cose. Che poi è ciò che dovrebbe fare la buona letteratura, di qualunque genere essa sia.

Ritieni che questo frammento della narrativa horror locale sia un riflesso dei cambiamenti della società italiana? Quali sono i contribuiti contenutistici del tuo personale approccio alla narrativa?

Davide Mana:
Non sono sicuro che questo emergere di narrative fortemente localizzate sul territorio sia un riflesso di cambiamenti sociali significativi. L’impressione è di frequente che semplicemente gli editori stiano cercando di radicarsi sul territorio al fine di raggiungere nuovi lettori. Insomma, sono passati i tempi incui un UFO non poteva atterrare a Lucca; ora ci atterra eccome a Lucca, e la storia dell’atterraggio ha come target e lettori ideali i Lucchesi e pochi altri. Esiste d’altra parte un risveglio, a scala globale, dell’interesse per quello che viene variamente descritto come Rural Horror o Folk Horror, un sottogenere che ha visto il suo massimo sviluppo negli anni ‘70. Quindi chissà, forse c’è un legame fra i periodi di crisi economica e istituzionale, e il risorgere di antichi orrori della tradizione. E chi lo sa, forse rappresentare la tradizione come fonte di orrori può essere uno stimolo a guardare altrove, al progresso, alla ragione, al futuro. Nei periodi di crisi si cercano spesso alternative a quei sistemiche si sono dimostrati poco efficaci.
Quanto ai miei contributi, io resto un intrattenitore per vocazione e uno scienziato per formazione, e il mio principale interesse è intrattenere i miei lettori in maniera intelligente (beh, OK, ci si prova, per lo meno), dando loro delle idee e degli spunti sui quali ragionare. Questi spunti si possono trovare nella storia o nella cronaca locale, o in decine di altre fonti diverse. Molto spesso ci si inventa delle tradizioni che non esistono, ma che hanno il giusto tono e si adattano ai luoghi. Non è una scienza esatta, ci sono molti approcci possibili, tutti validi.

Se dovessi attribuire un volto a un immaginario “genius loci” territoriale che raffiguri per te al meglio l’idea dell’horror/weird piemontese, a quale figura penseresti, o a quale sei ricorso nel tempo nella tua produzione?

Luigi Musolino:
Senza ombra di dubbio penserei alla masca, una figura che ricorre spesso nei miei racconti e che mi ha aperto la strada a una vasta ricerca sulle oscure leggende del folclore nazionale.  Le masche scorrazzano in lungo e in largo per le campagne piemontesi, dal Roero sino al Canavese, passando per le Langhe e il Biellese. Streghe, fattucchiere, poco importa se di aspetto orripilante o nascoste sotto le sembianze di splendide giovinette, pare che la loro origine possa essere fatta risalire ai tempi remoti dei Celti Liguri stanziati in Piemonte, presso i quali erano sciamane, druide, donne emancipate con primitive conoscenze di medicina, poi demonizzate dalle dottrine cristiane. Insomma, una figura antichissima, che trattiene i ricordi millenari e gli incubi di un’intera regione.
Sono accomunate da poteri sovrannaturali che devono tramandare al momento della morte e si narra che ogni masca abbia a sua disposizione Il Libro del Comando, formulario di incantesimi e iatture redatto in dialetto e Latino, strumento indispensabile per scagliare incantesimi, preparare pozioni con erbe medicamentose e predire il futuro.
Fino a non troppi decenni fa, nelle cascine e nelle campagne della Bassa, le masche venivano incolpate di qualsiasi accadimento negativo. Se una gallina si ammalava era stata senza dubbio una masca. Se un bambino moriva in culla era certo che fosse stata una masca a succhiargli via il respiro. E scivolando più indietro nel tempo, documentandosi, non è difficile scovare atti processuali di masche e masconi (la poco diffusa controparte maschile) perseguitati e mandati al rogo dalla Santa Inquisizione.
Tutt’oggi le masche sono ben presenti e radicate nell’immaginario piemontese, tanto che è uso comune esclamare “Aj sun le masche!” (“Ci sono le masche!”), quando succede qualcosa di strano o imprevisto.
Nel paese in cui sono cresciuto, Idrasca, mezz’ora di automobile da Torino, con questo termine non solo si indicano le streghe della tradizione, ma anche colossali volti mostruosi che apparirebbero in determinate notti tra le cime dei pioppi, presagi di sventura e di un altrove nascosto appena oltre il reale, figure che mi hanno sempre ricordato uno dei migliori racconti weird di tutti i tempi, The Willows di Algernon Blackwood.

 Trovi ci siano delle simmetrie tematiche o formali, in termini di sensibilità comune, tra il tuo lavoro di scrittore italiano e quello di altri autori stranieri?

Christian Sartirana:
Certo! E dal momento in cui siamo tutti esseri umani credo che di simmetrie ce ne siano in tutta la narrativa di genere e sarebbe piuttosto interessante mapparle.   
Naturalmente sia il vissuto personale che il contesto sociale dell’autore danno luogo a delle sfumature proprie, ma le basi su cui si edificano le “personalità weird” (chiamiamole così) sono piuttosto ricorrenti.
Se dovessi comunque nominare un autore straniero con cui sento una forte affinità direi sicuramente Ramsey Campbell.
Campbell non soltanto un autore di cui stimo le capacità letterarie (che comunque reputo indubbie, anche se da qualche anno lo leggo sempre meno) ma un uomo il cui “terrore” personale mi tocca profondamente. Molte persone che hanno recensito i miei lavori mi hanno accostato a lui, e se l’hanno fatto non è perché cerco di imitarlo, ma piuttosto perché il senso di spaesamento che provano i suoi personaggi nelle sue storie è identico a quello che io sento quando sono preda della mie paure. E le paure che provo, naturalmente, sono poi le stesse che leggete nei miei racconti. Come mai tanta affinità? Beh, da quello che so di Campbell posso affermare che abbiamo vissuto un’infanzia con parecchi punti in comune, nonostante l’evidente differenza di età. Campbell è figlio della repressione religiosa e del fanatismo di un’epoca che non ammetteva neanche il divorzio dei coniugi. Io, nonostante sia soltanto del 1983, sono nato e cresciuto nell’entroterra siciliano, dove lo stile di vita era assolutamente identico a quello cinquant’anni prima. Nella cittadina in cui vivevo, abbondavano santoni che praticavano esorcismi e curavano malanni, bigotti superstiziosi, nonché preti da camicia di forza che ti minacciavano inoculandoti in testa le fantasie più cruente. Ti basta sapere che da bambino, uno dei miei terrori ricorrenti, era quello che il demonio potesse entrare nel mio corpo e distruggerlo sino ad uccidermi. Mentre mia madre, invece, riceveva chiamate anonime in cui veniva pesantemente insultata da ignoti perché era una donna divorziata. E molte volte al telefono rispondevo io…
L’ossessione e il terrore del peccato, del sentirsi sporchi e colpevoli di ogni cosa, emozioni tanto care alla cultura cristiana, mi avevano condizionato a tal punto da creare in me un odio/terrore per il “bene cristiano” ed un fascino/terrore per il “male” di cui mi sentivo preda senza neanche sapere il perché. Per tal motivo ho scritto molti racconti sull’argomento del fanatismo religioso, in particolare sull’ossessione patologica per la purezza. Tra i più riusciti pubblicati posso nominare Le facce bianche (Ipnagogica) e Gabbie (Sotto un cielo rosso sangue), mentre Ramsey Campbell ha scritto storie tipo Le mani (Profondo Horror), Diaboliche Statuine (Il sesso della morte) Un altro mondo e Fa meno male se canti (entrambi da Incubi & Risvegli) o il romanzo Luna Affamata.
Naturalmente i punti in comune con l’autore di Liverpool continuano, ma per il momento è meglio fermarsi qui…   

Un pensiero riguardo “All’ombra della Mole – incontro col neogotico piemontese (seconda parte)

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