“Con Fauno stiamo sconfiggendo la morte e il tempo”. ‘Nuova Intervista’ a Nicola Vicidomini

Ancora una volta, Rivista Milena incontra Nicola Vicidomini (che ha già lo scorso anno ha concesso un’intervista al nostro periodico) e il suo teatro. Stavolta, in occasione dei suoi nuovi appuntamenti che in aprile e in maggio lo vedranno impegnato a Napoli e a Roma. Ne è venuta fuori un’intervista in cui non è parso giusto interromperlo più di tanto, nel tentativo di scandire la canonica estensione del testo. Nessuna necessità di dettare ritmi ai momenti, nessun intervallo a una conversazione che, forse, cova l’intenzione di porsi a parola d’ascolto per un’immaginaria, distante e vicinissima platea.

Qui le date degli appuntamenti di Nicola Vicidomini previsti a Napoli e a Roma per una versione aggiornata di Veni Vici Domini e per il nuovo spettacolo Fauno.

Veni Vici Domini – Napoli, Piccolo Bellini, 5 aprile ore 21.00

Fauno – Roma, Teatro Vascello, 28 aprile, 11 e 26 maggio

L’evento è tra gli appuntamenti targati Bequiet. Riduzioni per gruppi scrivendo a staffvicidomini@gmail.com

Nella preparazione di Fauno entrano anche le maschere curate da un artista, DEM. Una scelta diversa dal solito?

I lavori di DEM mi piacciono molto. Per Fauno sta concependo protesi misteriose, ancestrali, demoniache. Inoltre, ho messo a punto, con la collaborazione del musicista sperimentale Ndriu Marziano, un vero e proprio habitat sonoro, uno sfondo acustico continuo con cui mi relazionerò nel corso dell’azione. Nulla più dell’immagine che si nega, lasciando spazio al suono, può restituire una visione. Tutta la grande pittura c’entra ben poco con l’immagine. Sono da sempre contro la descrittività ambientativa tipica delle canoniche scenografie teatrali, che non hanno mai mostrato nulla se non l’inettitudine della volontà rappresentativa. Alla stessa maniera, ho sempre avuto una certa repulsione verso il commento musicale. Per fare un esempio, il compito del musicista nel cinema non dovrebbe essere quello di un applicato alla segreteria dell’immagine, piuttosto sarebbe auspicabile che riscontrasse una perfetta simbiosi in assoluta autonomia, con tutto ciò che l’immagine in quanto tale, nella sua dichiarata evidenza e volontaria rappresentazione, non manifesterà mai. Ecco perché adoro Piero Piccioni e Piero Umiliani, che generalmente scrivevano le loro musiche per se stessi, prima ancora che venissero montate su pellicola. Magicamente, un paradosso in barba al senso: risultavano proprio queste a generare, in relazione alle immagini di film spesso anche molto mediocri, una visione. L’immagine è sempre borghese. Gli animali dipinti dai preistorici nelle grotte di Chauvet sono pura visione, prima e dopo noi stessi, e non hanno nulla a che spartire con la narrazione, con la storia, col senso. Se negli spettacoli precedenti poteva esserci un residuo di volgare senso comune, in Fauno taglio definitivamente i ponti con la sempre compiaciuta e disonesta condivisione comunitaria. Evidenzio che lo spettacolo vede la collaborazione fondamentale di mio fratello Rosario, pittore immenso – invito chiunque ad approfondirne l’opera -, e il debutto di mia sorella Miriam, nel ruolo prevalentemente fisico di una curiosa capra-vitello.

Nello specifico, perché proprio le musiche di Piero Umiliani?

Per le ragioni esposte in precedenza. Non avevo mai considerato l’ipotesi di operare sulla musica. Ritmo e musicalità sono sempre stati dettati solo dal mio corpo. Elisabetta e Alessandra Umiliani hanno ritrovato per caso due nastri del padre risalenti ai primi anni ’70, mai utilizzati e mai aperti da allora. Una sera ero a cena a casa loro, li abbiamo ascoltati sul Revox un po’ impolverato di questo grandissimo artista. Ho percepito immediatamente, con infinita meraviglia, che le uniche musiche possibili, le sole che avrebbero potuto interagire con i miei appunti e avrebbero contribuito a scandire lo spettacolo e i suoi ritmi, sarebbero potute essere quelle. Sembravano realizzate a posta qualche giorno dopo. Provo un’emozione particolare nel pensare che Piero le avesse incise oltre 40’anni fa per uno spettacolo che andrà in scena tra due mesi. Elisabetta e Alessandra, persone straordinarie, di grande sensibilità e alto profilo umano e culturale, le hanno messe nelle mie mani, non mi stancherò mai di ringraziarle. A tal proposito ringrazio pure Pierpaolo De Sanctis e la sua Four Flies Records per aver sbobinato tutti i nastri. Da allora, sono stati questi inediti di Piero Umiliani – perlopiù brani sperimentali, pionieristici, elettronici – a imporsi come respiro dello spettacolo, tanto da rivelarsi l’assoluta linea guida di Fauno. Una sorta di regia, di conduzione a distanza, in cui il suono assume una straordinaria importanza. Non sono brani stampella, non vengono impiegati per indurre all’emozione. Sono motore della visione stessa. Il suono esclude ogni possibilità di interpretazione. Il suono è indichiarabile. Umiliani non componeva per il teatro da quando con Pasolini scrisse le canzoni uno spettacolo di Laura Betti, da cui il disco del 1960 Laura Betti con l’Orchestra di Piero Umiliani, c’erano anche testi di Franco Nebbia, Arbasino e altre musiche di Fiorenzo Carpi. Non è stata la prematura dipartita, avvenuta nel 2001, a impedirgli di realizzare Fauno con me. Con Fauno Piero e io abbiamo sconfitto la morte e il tempo. Tornando a quello che dicevamo prima, cos’è questo se non ritrovarsi nel realizzare un’opera, sospesi in una reciproca, solitaria, autistica autonomia? Si può parlare solo con la nostra assenza. Parlare coi morti in un presente così desertico è stata da sempre la mia specialità.

Il Fauno per Nicola Vicidomini è un ritorno a qualcosa che in fondo non è mai stato lasciato. Com’è il demoniaco di Vicidomini? E la sua ricorrenza non rischia di “istituzionalizzarlo”?

Non si corre il rischio di istituzionalizzarlo se si catalizza questa ribellione in dinamiche e, probabilmente,forme sempre altre, poco sicure. Comunque a istituzionalizzare opere ed eventi ci pensano i soldi e i ministeri. Ti garantisco che non corriamo e non correremo mai questo rischio. Come si fa a istituzionalizzare un’eruzione vulcanica? E’ un dispetto onnipotente. E’ sete di vivere mangiando una montagna, col rischio costante di morire per non essere riuscito a mangiarla o per indigestione d’alberi. Ho sempre amato la pittura di Bosch, Goya, Bacon, ma anche certe divinità risalenti alle antiche comunità agresti, piuttosto che ritualità stregoniche. In me risiedono diversi elementi che derivano da questa empatia con liturgie e tradizioni appartenenti a figure misteriose riconducibili a credenze e pratiche tribali. La considerazione sacra che ho per gli animali ne è la prova. Non scherzo quando definisco il gatto che vive e dorme con me, Alberto, il mio maestro. Una versaccio a ogni prospettiva illuminista e antropocentrica. L’uomo si è posto al centro del creato, autodichiarato la superiorità della sua specie, definito coscienza e intelligenza, perseguendo il raggiungimento di traguardi che capisce solo lui. Prova a spiegarle a un coccodrillo queste storie. Edificando, in breve, in tutta la sua ottusità, un senso e una narrazione unilaterale, prima e dopo la quale dovrebbe prendere atto di non essere nulla e ricongiungersi al mistero. E forse ritroverebbe il suo respiro. E qui l’istinto non c’entra. Valuto l’ideale superiorità di una specie dalla maniera di stare al mondo, di muoversi, di emettere versi e suoni. Valuto per non valutare più. La prima cosa che hanno cercato di insegnarmi Michele Monetta e Lina Salvatore, quando ho cominciato a studiare seriamente il mimo corporeo astratto, è ritrovare prima di tutto un’esistenza nella necessità di ogni movimento, nel ritmo di ogni azione, nella precisione di qualsiasi gesto, tutti aspetti istintivi, propri degli animali, che la barbarie civile di un quotidiano approssimativo e dissociante (a cui, a costo di apparire un cialtrone sprovveduto, ho fatto il verso in Scapezzo, soprattutto nella maniera sciatta e vagamente approssimativa di stare in scena) ci ha estirpato. Non dovrebbe esservi distinzione tra pensiero e corpo. Il corpo è il pensiero. Prova a osservare il movimento dei gatti, quanta precisione, ritmo ed eleganza, quanto senso onnipotenza divina. Non hanno bisogno di leggere Nietzsche. Sono essi stessi la filosofia di Nietzsche. Non scherzo se aggiungo che tra le altre cose Alberto manifesta sempre un grande interesse per la musica orchestrale ben eseguita. Rimane attentissimo. Fa le fusa. Le punte delle orecchie si muovono, quasi impercettibilmente, seguendo il flusso del suono. Lo sguardo è attento. Non so cosa provi. Potrebbero essere sensazioni simili alle mie. Il romanticismo è animale.

Alcuni critici di te hanno scritto che metti d’accordo critica e pubblico. Anche nella scheda tecnica è scritto che addetti ai lavori e pubblico amano il tuo spettacolo. Ma al Fauno, in fondo, quanto sta veramente a cuore questa distinzione?

Fauno non la capisce. E’ una distinzione che non ha ragion d’essere. Fauno è uno spettacolo congruo e aderente a un sentire che mi riguarda più intimamente. E’ molto più chiaro di Scapezzo, dove alcuni aspetti fondamentali della mia poetica  si manifestavano in maniera sommessa o accennata, forse perché rimanevano maggiormente legati a strutture linguistiche riconducibili alla sfera del reale. Non c’è reale che riguardi Fauno, se non come delirante residuo strutturale. E non escludo che questo possa provocare uno spaesamento in una fetta di pubblico meno sensibile. Se con gli spettacoli precedenti ho registrato costanti tutto esaurito, con questo mi piacerebbe svuotare i teatri. Dico sul serio. Il consenso mi dà noia. E spesso, per quanto mi dia più sicurezza, tende a immobilizzare il mio senso di onnipotenza. Essere onnipotenti è il contrario di essere sicuri di sé. Rinnego, comunque, quanto dichiarato poc’anzi, entrando in netta contraddizione con ciò che ho creduto e che sono stato solo qualche secondo fa. La  dichiarazione fatta in precedenza non mi riguarda più:  il teatro sarà strapieno come al solito perché devo mangiare.

Rinunciare alla realtà, farne a meno, non è cosa per tutti.

L’idea di un “tutti” non mi è mai riguardata, quanta democrazia a perdere. Fauno chiede allo spettatore di abbandonare se stesso, di cantare la propria inesistenza. Con questo nuovo spettacolo, che, non a caso, inizia a sipario chiuso, calo la quarta parete, distaccando il pubblico dalla performance, precludendo ogni attiva possibilità di partecipazione o ammiccamento, una tra le premesse che consenta quell’attraversamento di cui abbiamo parlato prima. La relazione che avevo instaurato con Scapezzo qui cade. Il reale non esiste. Fauno prescinde dal pubblico e da ogni punto di vista. Fauno è il mistero della respirazione. Ci tengo a dire che è dedicato alla Baronessa Pietra Leonardo Lo Vecchio. E’ stata lei, su tutti, ad ispirarmi. Questo spettacolo farà ridere anche tra 3000 anni, non solo gli esseri umani. 

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