Intervista a Michele Mele, l’autore matematico: “Non è un pugno di cellule in meno che crea la disabilità.”

di Davide Speranza

«Alcuni conducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l’automobile in panne fin là dove non blocchi il traffico, picchiano furiosamente sui finestrini chiusi, l’uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall’altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello, Sono cieco».

Comincia con un fade out – per dirla con il linguaggio cinematografico – il capolavoro letterario di José Saramago, Cecità. Siamo in tempi di virus, e le parole del compianto scrittore portoghese ci vengono incontro. Un mondo dove tutti perdono la vista. Una metafora che si accoppia a quel che siamo, quel che diventiamo di giorno in giorno. La mancanza di percezione visiva allude a qualcos’altro. A qualcosa di terribile, che riguarda tutti noi e dalla quale non possiamo più fuggire.

Siamo nudi dinanzi al buio. Nudi e privi di materia dentro e fuori i contorni slabbrati di un vuoto che è il pieno di questa civiltà costruita sulla mancanza di identità e sulla precaria consapevolezza del sé socratico. Sapere di non sapere: la migliore delle virtù. Come nello straordinario racconto di Raymond Carver, Cattedrale, dove un cieco aiuta un vedente a vedere il mondo, il che sembrerebbe un paradosso. Non lo è. A dimostrarcelo, fuor di metafora, è il 30enne Michele Mele. Salernitano, borsista all’università degli Studi del Sannio di Benevento, che nella vita si occupa di ottimizzazione combinatoria. Si è laureato a Salerno in Matematica, il dottorato lo ha conseguito alla Federico II di Napoli, in Scienze matematiche e informatiche. Ha scritto un libro, L’Universo tra le dita (Edizioni Efesto), ha scoperto un metodo che aiuta i non vedenti e gli ipovedenti (come lui) a guardare i quadri, anzi a percepirli. L’esistenza stessa di Michele sembra dire al mondo di oggi: «Non bastano due occhi in più per guardare. Perché dovete guardare la vita, oltre che vederla».

Michele inutile girarci attorno. Come hai vissuto l’ipovisione?

Ricordo un Michele bambino che deve imparare a muoversi da un punto A a un punto B, sapendo di non vedere bene. Dalla nascita sono affetto da una eredo-degenerazione retinico-maculare. Poi, nel 2014, sono stato colpito dalla sindrome di Charles Bonnet. Buona parte delle mie difficoltà era muovermi e spostarmi, fare un certo numero di operazioni in maniera autonoma e accessibile. Ma con la nascita mi sono portato dietro anche una sorta di propensione a fare calcoli a mente, cosa che ho allenato poi per necessità, potenziando la mia memoria. Molti insegnanti non mi hanno capito. C’era un professore di fisica e matematica al liceo che si è sempre dimostrato prevenuto, diceva che la matematica non era per me. Sono pregiudizi che sento da una vita intera. Nell’ambiente di classe, nel corpo insegnanti, all’università.

Nello specifico di cosa ti occupi?

Opero in quel ramo indicato come logistica o ricerca operativa, una branca nata a Londra sotto le bombe della Seconda guerra mondiale. In quel frangente, gli alleati dovevano ottimizzare le risorse e gli spazi e muoversi con lo sforzo minimo. Ecco, io sono uno di quelli che scrivono algoritmi e modelli per risolvere criticità reali su grossa scala, come la vaccinazione, o l’arrivo e la partenza degli aerei.

Ma come nasce la passione per i numeri e l’ottimizzazione combinatoria?

All’università inserii per caso un esame, Ricerca Operativa. Alla prima lezione mi sono reso conto che l’obiettivo dei problemi era trovare la soluzione tra un numero enorme di soluzioni. Dovevo trovare quella migliore possibile. Era la cosa che avevo fatto da una vita intera. Da piccolo ho vissuto in una società che faceva di tutto per emarginarmi, e io non glielo permettevo. Sono molto testardo, non accetto imposizioni legate alla mia vista. Non mi sono sentito messo da parte, avendo avuto una famiglia eccezionale. Mi sono sempre saputo barcamenare attraverso le disavventure dell’infanzia e dell’adolescenza. Le cose passano. Il liceo è stato il periodo in cui la mia pazienza è stata messa alla prova. L’università ha significato per me la consapevolezza che la matematica può rendere autonomi dal punto di vista economico e sul piano della quotidianità. Organizzare le cose, è questo il mantra. Durante il dottorato, ho lavorato sui problemi inerenti all’aeroporto. In questi luoghi, una persona con disabilità ha bisogno di assistenza sia in ingresso sia in uscita. Questa assistenza deve rispettare delle regole spesso ignorate. Ho scritto dunque il mio lavoro di ricerca per ottimizzare i servizi negli aeroporti internazionali per persone con bisogni speciali. Ho realizzato un algoritmo che in pochi millisecondi può organizzare una intera giornata di accompagnamento senza violare alcuna regola. E credetemi, in Italia le regole vengono violate. In un aeroporto di una certa grandezza che può avere anche 1000 assistenze giornaliere, ad esempio Roma in periodo di vacanza, possono essere operative circa 300, 350 persone che però ogni giorno violano le regole, disperdendo energie ed economie. Il lavoratore non dovrebbe superare le 8 ore al giorno, dovrebbe fare la pausa pranzo. Il cliente che chiede assistenza dovrebbe avere il diritto di riceverla con la lingua che preferisce. Ho dimostrato che si può creare uno scheduling che faccia rispettare le regole sul luogo di lavoro, oltre che economizzare e permettere una migliore qualità del lavoro.

Cosa significa per te “vedere il mondo”?

Ognuno di noi lo vede in una maniera diversa e personale. A causa di queste patologie ho una mia percezione del mondo e della vita. Non la auguro a nessuno, ma è mia. Navigo in un mondo secondo le mie potenzialità. Molte persone guardano normalmente una partita di calcio. Faccio fatica a seguire pallone e giocatori, è vero. Posso seguire però una radiocronaca e immaginare la partita. Anzi scrivo di calcio su una rivista, Il calcio a Londra. Seguo i tornei e nessuno immagina che sia una persona con problemi di vista. Dunque percepisco a modo mio e nello stesso tempo come tutti gli altri.

Il progetto d’arte che hai ideato è rivoluzionario. Come hai avuto l’idea?

Intanto, l’amore per l’arte nasce con la passione per la storia. Ho avuto un’insegnante eccellente al liceo, una di quelle che possono cambiare il mondo, la professoressa Anna La Padula, docente di Disegno e Storia dell’arte. Mi ha fatto appassionare all’architettura. Sono innamorato degli impressionisti e dei paesaggisti dell’Ottocento. Così ho pensato al progetto “Accessibilità all’arte” nato in sinergia tra il Touring Club italiano, club di territorio di Salerno, di cui sono socio attivo, e il Centro d’Ateneo SInAPSi dell’Università di Napoli che supporta chiunque si senta escluso dalla vita universitaria. Per le strutture 3D abbiamo le stampanti e tante tecnologie, il problema sussiste con il messaggio bidimensionale poiché se si fa toccare un quadro o un affresco ad occhi chiusi non si ottiene alcuna informazione. Grazie al supporto di un’azienda inglese che ha brevettato il materiale, abbiamo messo a punto un metodo che ci permette di rendere accessibili oggetti artistici bidimensionali, quadri, affreschi, arazzi e mappe geografiche.

Si parte da una foto in altissima qualità. Poi abbiamo un algoritmo backtracking, prendiamo una immagine, la spogliamo al computer di tutti i dettagli non fondamentali, lasciamo solo la struttura. Pian piano andiamo a riaggiungere questi dettagli in maniera da ottenere il bilanciamento ottimale tra ricchezza dell’immagine e le dimensioni. Una volta raggiunta una certa saturazione, stampiamo su un foglio speciale rivestito da strati di polimeri e attraverso un fornetto riscaldiamo questi fogli. Quando la temperatura sale, l’inchiostro della stampante e lo strato di polimeri reagiscono, le linee assorbono aria e vengono fuori dal foglio. Sono linee che escono dal foglio quel tanto che basta a far diventare l’opera tattile, ma non un bassorilievo; corredate da didascalie in braille e da una grande foto a colori del soggetto. Il progetto è partito dalla Chiesa di Santa Maria de Lama a Salerno, poi in siti aperti a Napoli presso San Giorgio Maggiore e San Severino e Sossio, a breve anche in Santa Maria Egiziaca, quindi a Capua, o nel museo archeologico di Paestum dove abbiamo realizzato la riproduzione del Tuffatore e di lastre di epoca lucana. Ancora, a Pompei, nel Duomo e in San Pietro a Corte a Salerno.

Nel tuo libro, racconti di grandi scienziati ipovedenti o non vedenti che hanno cambiato la storia.

L’Universo tra le dita mi venne in mente parlando con una cara amica, alla vigilia del primo lockdown. Quante volte dobbiamo sentire che un non vedente non può occuparsi di matematica, ingegneria. Invece la storia ne è costellata. La mia amica mi diede l’idea. Raccontare le storie di scienziati ipovedenti e non vedenti, con l’obiettivo di abbattere il pregiudizio che allontana i giovani con patologie della vista da discipline scientifiche. Ho compiuto una lunga ricerca negli archivi, presso enti importanti intrecciando email con la Biblioteca dell’università di Cambridge, il British Museum, la biblioteca del Congresso degli Usa. Mi sono creato una bibliografia di nomi. Ho selezionato 10 persone, 6 del passato e 4 viventi, dalla fine del Seicento a oggi. Ad esempio, la storia del primo scienziato non vedente diventato professore all’università di Cambridge come erede della cattedra di Newton. Quindi, come dimenticare Eulero, uno dei più grandi matematici, che prima dei 30 anni iniziò a perdere la vista, John Metcalf, non vedente dai 6 anni e primo ingegnere specializzato nella costruzione di strade, Jacob Bolotin americano e primo medico non vedente abilitato alla professione. Tra i viventi, ci sono due amici. Il dottor Damion Corrigan, ingegnere biomedico inglese, inventore del test rapido per il covid: migliaia di persone usano questo test, creato da un ipovedente e non lo sanno. E una donna, Mona Minkara, esperta di tensioattivi polmonari. Insomma un libro divulgativo, non ci sono formule, né schemi astrusi. Sono le vite raccontate di questi grandi che hanno osservato il mondo dal buio, dando il loro contributo decisivo. Una società inclusiva fa bene a tutti.

Cosa ti senti di dire ai giovani con patologie della vista?

Di non abbattersi. Non ci sono limiti. Il contesto conta, è chiaro, ma non è un pugno di cellule in meno che crea la disabilità.

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