Caterina

di Eliana Petrizzi

Percorro questa strada ogni giorno: una via stretta che collega la mia casa al paese vicino, attraversando piantagioni, prati, campi di ciliegi e noccioli. Maurizio mi dice ogni volta: «Che ci vai a fare ogni santo giorno, che sarà cambiato mai da ieri a oggi?». Ma le cose cambiano eccome. Visto da qui, il paese è una cresta di risacca che finisce contro la collina. Vengo a gioire della natura, della sua maestà violenta, della sua insensatezza e della sua cecità, che mi saziano più di qualsiasi risposta. Indosso un paio di occhiali scuri e cammino spedita. Il giro dura poco: contabilizzo le distanze, verifico se tutto è a posto, finendo ogni volta su una panchina con lo schienale argentato dall’inchiostro delle lumache. Gli abitanti della via, vedendomi seduta a fissare il campo, mi salutano gentilmente: anche i cani dietro i cancelli hanno smesso di abbaiare.

Penso a tutte le cose che vorrei fare, ma mi stanco presto. La mia testa è una stanza zeppa di oggetti stipati alla rinfusa che lascerebbero posto a cose nuove, se solo avessi la forza di rassettare. Ma le cose non accettano comandi, affidandosi piuttosto al tempo misterioso e sempre esatto del loro accadere.

La mia casa, le persone e le cose diventano l’attesa alle stazioni o l’essere per strada, dove in ogni direzione traccio assenze di meta. Osservando la gente, capisco che la vita di ognuno non chiede che calore e compagnia. Un cielo stellato è meraviglioso finché lo si guarda da questa parte del buio, ma se si prova ad immaginarlo fuori dalla Terra, ecco un vuoto senza memoria, né speranza di niente che viva o che abbia mai vissuto. Lì, l’uomo verrebbe stroncato in pochi minuti da una solitudine atroce, che gli farebbe sperare la morte come qui cercava la vita.

Quando torno a casa trovo Maurizio, il mio compagno. Maurizio è un webmaster che trascorre dalle quattordici alle diciotto ore al giorno davanti al PC. Non è che abbia molto lavoro da sbrigare, è che c’è finito dentro e nessuno più lo può salvare. Per vedere meglio il monitor tiene gli infissi chiusi, così non sa mai che ora è, se piove o se c’è il sole, se è estate o inverno. Ogni minimo rumore gli dà fastidio: i miei piedi scalzi sul tappeto, la lavatrice accesa, lo scarico del vicino, un pullman in strada, un aereo che passa, gli fanno cantilenare bestemmie colorite con cui si tiene compagnia. Appena siamo venuti a vivere qui gli ho chiesto di avere un bambino: mi ha risposto che non aveva tempo, che poi il suo lavoro chi lo avrebbe sbrigato? Forse io, che sono buona solo ad acchiappare mosche sotto gli alberi? Nonostante gli anni insieme, io per lui non sono niente e non sono mai cambiata. Che brutta fine ha fatto Maurizio. Credevo avesse un animo sensibile perché lo incontravo ai concerti di musica classica o alle letture di poesia in biblioteca. Ma adesso è chiaro che ci andava solo per darsi un tono, e che di quelle cose non gliene è mai fregato niente. Uscendo di casa, preferisco le giornate grigie, così brave a raccontare la violenza e il rumore a furia di immobilità e silenzio. Quando torno, la cosa che più mi piace fare è pulire e cucinare. Cucinare soprattutto, mi pare un atto d’amore così grande e generoso: dare nutrimento, inventare tra i cibi matrimoni non meno sorprendenti di quelli tra persone. Lascio cuocere le pietanze, mentre la casa si riempie del loro borbottio e degli odori, che sono in fondo la mia famiglia, come le impronte sullo specchio, un asciugamano piegato male, la spazzatura da eliminare, le stoviglie da pulire.

Lungo la strada che percorro c’è un rudere che a me è sempre parso immenso. Decido di cambiare strada: proseguo da sotto, lasciandomi la via sulla destra. Guardando così il rudere dal lato opposto, mi accorgo che è una casupola grigia arruffata tra gli alberi, così piccola da non credere che un tempo possa essere stata abitata da qualcuno. Su uno dei suoi muri qualcuno ha scritto: “Io ti amo ogni giorno, tu amami almeno fino a domani”.

 

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