L’eterna corsa della letteratura

Non occorre la penna né il foglio ancora privo di battesimo; tu che leggi in un’ora qualunque, alzato o seduto, curvo o infastidito da una zanzariera che frigge insetti, già sapevi ogni cosa delle parole che seguiranno, non una parola è mia, ogni accento io l’ho rubato a te. Sono il più sanguinario tra i ladri, e le mie vittime le più innocenti. Nelle notti insonni in cui mi alleno a espiare le colpe tu mi porgi l’acqua che mi sfebbra ed io, acrobata della sintassi, ti scrivo di volerti bene. E’ un gioco, ma tu non lo sai. Ecco perché all’angolo di un crocevia so dov’è la buca, la forma dell’insegna arrugginita di un caffè a te sconosciuto. Tu sei sempre dietro  le mie spalle, e se mi volto sorridendoti non è per tenerezza, è solo un una rassicurazione sul rispetto delle distanze, un misurare che il vantaggio resti invariato. Se ti avvicini il mio sguardo t’impone un cambio di passo, se ti allontani le mie urla ti fanno da frusta. Tu, ormai cavallo al giogo di un elastico nemmeno più mi guardi, già sai.

Le parole che mi sfamano le ho sottratte a te, e tu, questo è il più beffardo dei miei godimenti, mi lusinghi, semini nelle piazze i bagliori delle mie gesta. Mangio la tua carne e le tue ossa mi benedicono. Forse ti alleggerisco di un peso, forse io ingrasso dei tuoi pensieri in riserva. Sarà per questo che in certe notti mi tengo la testa tra le mani, a calmare le vene che battono.

Non so chi sia tra di noi il furbo: tu rinunci alla parola per caricarla sulla groppa della mia vanagloria. Io, appesantito, devo drogarmi di mondi smontati per mantenere l’andatura che ci divide. Ora ti riconosci? Ricordi quella viola che strappasti al limitare di un sentiero percorso da quattro anime smunte? L’hai persa, altri fiori hanno profumato le tue mani, ed ora quella viola è come se non fosse mai stata. Ti sbagli! Tu salivi il sentiero quel giorno, io lo scendevo. Ti vidi compiere il gesto. Tu l’hai perso, io l’ho conservato. Ho rubato l’inchino compiuto, l’ho conservato come provvista per l’inverno, me ne sono servito per comporre queste righe.

Tra i due il perdente sono io. Tu mi hai “costretto” ad aprirti le porte. Tu mi hai assediato con quel chinarti sullo stelo. Senza saperlo il creatore sei tu, io un misero accattone, un esecutore, uno schiavo costretto a raccogliere le carte lasciate a terra alla fiera del vivere. Non posso nemmeno stringerti la mano come fanno due nemici che però si rispettano. In fondo, alla fine di questi sparsi semi lanciati in aria senza senso, come coriandoli in un canale, ho compreso che sono io a mantenere le distanze. Non sono io a dirigere il corteo fatto di me e di te. Io sono il peccatore, quello a sinistra sul Calvario, tu semplicemente m’inseguivi. Mai mi raggiungi perché sai che per scrivere qualcosa è necessario non toccarsi, ché le spalle che urtano mettono fine alla corsa, ché se uno cade il giudice di gara mostra il rosso a entrambi. E’ dura fare da lepre, ma so che calpestando l’erba davanti traccio un possibile sentiero, smino il terreno da qualcosa. Sono la prima linea che le pallottole dei soldati che si tengono al fresco dietro la boscaglia salutano, tu il testimone accorto che riferirai ai comandi. Io e te c’incontreremo solo a fine corsa, quando tutto sarà concluso. Mi toccherai la costola aprendo un qualunque libro,  sentirò l’indice piegarmi la schiena, ti riconoscerò senza mai averti saputo. Accade così, da infiniti anni.

 

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