‘Non si guarda alla vita solo con gli occhi’ – Motorizzati

di Fernando Gerardo Basile

-Vedo!-

L’affermazione secca e perentoria di Mario ruppe il silenzio carico di tensione.

Il  fumo di sigaretta, che levitava denso nella stanza, ebbe un fremito;

Luigi quasi un colpo. Non riusciva a crederci!

Eppure l’esclamazione era stata categorica: – vedo!-

Ciò poteva significare solo che, miracolo oculistico escluso, Mario accettava il rilancio del tedesco. Questi , teutonico fino in fondo, non batteva ciglio, anche se nel piatto, tra i soldi, al centro del tavolo, aveva deposto l’ultimo suo avere: le chiavi della volkswagen cabriolet, modello anni cinquanta, parcheggiata, in attesa di nuove imprese di viaggio, fuori dell’ostello della gioventù, nell’ampio piazzale dello stadio Olimpico.

Ma nel piatto, pensava preoccupato Luigi, c’era anche il sangue, il suo e quello di Mario: le ventimila lire che avevano racimolato, all’ospedale San Camillo, in cambio della donazione, chiamiamola così, di due sacche da trasfusione piene  piene.

Michele era stato chiaro: “Io non posso venire a Roma con voi, non ci sono soldi sufficienti, prendetevi questi pochi che ho racimolati con la solita colletta e presentatevi alla RCA per l’audizione. Mario! Il tuo avvenire di manager musicale; Luigi! Il tuo avvenire di cantante e  leader del complesso Wanted; il vostro avvenire è in gioco; ma anche la vostra stessa esistenza. Se… anzi, quando resterete a secco, affamati e spiantati, presentatevi al San Camillo per donare il sangue, avrete in cambio una abbondante colazione, qualche banconota da diecimila e la sopravvivenza. È sicuro, l’ ho verificato io stesso il mese scorso”.

C’era proprio il loro sangue, dunque, nel piatto e quell’austriaco del tedesco, quel Dracula biondiccio era pronto a succhiarselo.

Mario era stato categorico, però: – vedo!-

I due giocavano assieme: Luigi, il braccio; Mario, la mente.

Il primo reggeva e leggeva le carte al socio.  Il secondo decideva sul gioco, e proprio in quel momento stava giocando una coppia di dieci, di quadri e di cuori, che Luigi considerava, scettico, nella loro consistenza: rossi, nudi e desolatamente soli.

Non riusciva a crederci! l’affermazione, seppur decisa, del compagno, echeggiava drammatica nelle sue orecchie e il sangue, quello rimastogli dopo la trasfusione, gli si gelava nelle vene.

Mario, al contrario, era tranquillo: lui vedeva oltre, percepiva in maniera tutta e solo sua l’inquietudine e l’insicurezza dell’aspirante Dracula, del tedesco che non aveva aperto la mano di poker, ma che tuttavia aveva rilanciato dopo aver richiesto tre carte sullo scarto. –Si è precipitato, -pensava- con un gioco buono in mano non l’avrebbe mai fatto, si sarebbe divertito, il nazista, a tirarla per le lunghe.

L’ ho fregato, lo stronzo!-

Ne era certo e la sua certezza rese Luigi fiducioso nei due dieci: belli, rossi, splendidamente nudi.

Non si era ancora ricomposta l’aria scossa dal “vedo!” che il tedesco, un leggero velo di sudore freddo sul volto pallido, si alzò, e…e con stizza rovesciò sul tavolo il suo bluff: una coppia di sette, di picche e di fiori, neri come la sua disperazione.

Scomparve nella notte per sempre, povero guitto appiedato dal fato.

– Autista, prendi le chiavi!-

– Mario, ma che dici? Io non ho mai guidato, non ho la patente!-

– Luigi! ti ho detto prendi le chiavi della macchina, la nostra macchina; hai tutto il resto della notte per imparare a guidare. Domani dobbiamo essere a Napoli, dove so io; abbiamo anche i soldi per provviste e carburanti, cosa vuoi di più? O vuoi che guidi io?-

La macchina, colore da campagna militare d’Africa, targa tedesca da conquista di ampi spazi, era lì, nell’immenso piazzale vuoto.

Gli atleti giganti dell’Olimpico, bloccati per sempre nei loro gesti di pietra, ebbero di che osservare, nel prosieguo della notte, e certamente meditarono, non senza uno sprazzo di speranza, sul potere della forza di volontà di muovere le cose!

La macchina si mosse.

Luigi, acceso il motore, incoraggiato da Mario, forse  pilota in un’altra vita, spostò la leva del cambio come aveva visto fare a Totonno il lavianese, noleggiatore del paese; la macchina balzò in avanti con impeto belluino e… relativo urlo prosaico di Mario per la capocciata contro il parabrezza!

Svariati furono i balzi e i sobbalzi, le capocciate, lo stridio angosciante di gomme e le accelerate pazze, ma, dopo un paio d’ore, Luigi riuscì a domare la bestia, complimentato dal plauso compiaciuto del copilota e dal conforto dei primi raggi del sole del sopravvenuto splendido mattino.

Il Tevere, con il disincanto di chi ne ha viste tante, placido e paterno vellicava le rive e i ponti, ancora deserti, quando intrapresero il viaggio.

Mario, una cartina stradale di Monaco di Baviera alla rovescio tra le mani, indicava a Luigi, si fa per dire, come imboccare l’Appia  antica e la strada dei Castelli.

Luigi, pedone di lungo corso, guidava.

Facile! inebriante!

Anche perché la strada per Genzano, le curve dei Castelli le presero a tutta birra, nel senso che ne scolarono parecchia per conforto, tanto che la Fettuccia di Terracina la percorsero in un amen, manco fosse stato il rettifilo di Strollo, tra la Casetta Cantoniera e Sant’Andrea, dopo una sbronza di “quella fetenzia” di vino  che Caterina la “Vozza” propinava nel suo esercizio, insieme al prosciutto stantio di dubbia provenienza.

La fila interminabile di alberi, minacciosi sul ciglio della strada, a volte la sfiorarono nell’ennesimo sorpasso azzardato; a volte lambirono, pericolosamente, il canale pieno d’acqua e di canne palustri della bonifica pontina.

Ma San Cristoforo vegliava su di loro.

E santo per santo, si fermarono a Sant’Agostino, presso Sperlonga, per rifocillarsi e scolare altra birra. Si atteggiavano a viaggiatori nati; parlavano, a modo loro e ad alta voce, in varie lingue:  in inglese, forse!; in tedesco, chissà!; reminiscenze di una permanenza, breve ma defatigante, l’anno prima, in una insopportabile fabbrica svizzera.

La piccola baia di Sant’Agostino era un incanto; nelle sue acque, mitiche, ancora tiepide dell’estate, bionde bagnanti, o ninfe?, cavalcavano docili onde. Luigi, novello Ulisse, bello di fame di avventure, si guardava intorno speranzoso di una Circe; Mario, sornione, grufolava al tepore del sole autunnale a mezzogiorno. Napoli non era lontana!

Io, in attesa di riprendere, in biblioteca, il cimento con i versi epici di Omero, sfidavo il greco Achille all’ultima pallina di flipper nel Bachero, infimo ritrovo di via Mezzocannone; altri amici, a bigliardino, facevano sfracelli di irsuti sanniti e tosti calabresi. Michele, giunto a Napoli il giorno prima, guappiava nella mensa universitaria con il boss di turno: un carrierista politico di area socialista dall’avvenire aperto a ogni esito, compreso quello carcerario.

Arrivarono, spavaldi, verso le tre del pomeriggio!

Proprio mentre il pallido Achille mi sganciava mille lire per aver persa la disfida flippettara e mentre gli altri si facevano infilare da una pallina di sponda, distratti dalla inattesa comparsa dei due.

– Fernando, vieni con noi!- Mario, con delle chiavi in mano, sotto lo sguardo compiaciuto di Luigi, mi invitò a uscire.

-Sai cosa sono queste? Le chiavi della nostra cabriolet, che tu guiderai d’ora in avanti, durante la nostra permanenza  napoletana.-

– Mario, ma che dici? Mi prendi in giro? Io la patente ce l’ ho, ma la macchina, tu, dove la tieni?-

-La macchina?, quale macchina?- Michele, sopraggiunto in quel momento, intervenne nella discussione, perplesso, ma mica tanto; interessato piuttosto.

-Andiamo a prenderla!- disse Luigi e tutti e quattro ci avviammo giù per Mezzocannone, lungo il Rettifilo, verso Piazza Garibaldi: i due improbabili viaggiatori tedeschi, baldanzosi; Michele, già fiducioso in loro; io, incazzato nero per la temuta presa in giro.

La macchina c’era, -come fosse giunta lì resterà per sempre un mistero; non dico Mario, ma neanche Luigi è mai riuscito a spiegarlo, anzi, a spiegarselo- era parcheggiata, ironia della sorte, lungo il perimetro del Tribunale di Napoli, a porta Capuana, di tutta la città il luogo più sorvegliato da vigili urbani e poliziotti.

Luigi, per affermarne la proprietà, presa una immediata rincorsa, volteggiò aereo sul tettuccio di tela  con leggerezza di ballerino. Subito dopo, aperta la macchina, fece accomodare Mario e Michele al posto delle autorità, cioè dietro, si sistemò sul sedile anteriore, aprì la capote e mi cedette le chiavi e  il volante.

Ero sbalordito! Bloccato ai comandi.

Ma Michele, lui, già entrato nella parte, mi intimò, in perfetto pseudo tedesco, di riportarli velocemente  a Mezzocannone; senza ulteriore indugio, schnell!!

Il ritorno al Bachero fu di quelli che non si dimenticano.

Mentre i due diventati tre fingevano di consultare, in transito per Forcella, la solita cartina di Monaco, io, attraversata via Duomo, imboccai Spaccanapoli a tutto gas, e la percorsi tutta, contro mano, passando, non so come, tra i cunei blocca traffico, -cosa che sarebbe diventato, e a velocità sempre crescente, lo sport praticato nelle notti seguenti- e sbucai all’angolo di piazza San Domenico Maggiore, giusto all’imbocco di via Mezzocannone.

Che trionfo!

Mario era raggiante: come un generale romano sulla quadriga, al ritorno vittorioso in patria con i suoi luogotenenti. Percepiva lo stupore e l’ammirazione degli astanti, degli altri amici usciti dal Bachero per l’avvento, e commosso, con magnanimità, affidò a Michele il compito di fare una colletta per la benzina, prima di farli salire a bordo.

Da quel momento e per diversi giorni non andammo più a piedi ma in macchina,  sempre  in numero  non  inferiore a otto… minimo.

Eravamo motorizzati!

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