Nessuno celebri questa Repubblica delle normalità

C’è qualcosa che rievoca La Repubblica di Platone. Non quella festante, non quella in costante celebrazione, non quella che viviamo noi. Almeno, non sulla carta, non secondo le costituzioni e le leggi. Cadano, una per volta, tutte le cose su carta che distano anni luce dalla realtà. Il peggio è che a cadere sono ancora i caduti. Sì, i caduti. I morti, le vittime, gli scomparsi, gli adombrati nel dimenticatoio, quelli che a suo tempo dissero sissignore fate di noi quello che è necessario che si faccia.

I caduti del compimento del dovere, che, secondo Dumas figlio, è sempre quello che si chiede soltanto agli altri. I caduti per la seconda volta. Perché adesso che qualcosa sembra compiuto, nel benestare confuso e indistinto di chi ha detto da un giorno all’altro che il pericolo sembra cessato, resta una fossa comune dove si assommano i vivi e i morti. I morti li abbiamo già conosciuti. Sono decine di migliaia, ma è come se non fossero mai esistiti. Di più, come se non fossero mai morti. Un grande numero in costante aumento fa da muscolo involontario per uno spasmo che rallenta giorno per giorno, ma quello che segna resta segnato e destinato all’oblio. I morti che non fanno più rumore dell’erba che cresce, come dice Ungaretti.

I vivi, invece, sono quelli ai quali è stato chiesto di avere a che fare con la morte e che, per loro fortuna, sono riusciti a tornare, anch’essi muti, più muti dei morti, come i reduci dalla Gorgone di Primo Levi. La sanità italiana dall’inizio del dopoguerra a oggi ha fatto un numero di vittime che nessuno è in grado di calcolare. E, come se non bastasse, si è evoluta, da nord a sud, guardando alla sua funzione ideale come un significato sempre più pericoloso per l’intento reale di chi avrebbe dovuto perseguirlo. Fino alla mutazione da servizio pubblico ad azienda, per la messa in vendita del diritto fondamentale dell’essere umano: quello della vita.

L’Italia repubblicana, quella di chi ha pure la faccia tosta di celebrare con questa parola, “repubblica”, che così mal si addice agli orrori che si porta dietro, ha dovuto assistere al terrorismo, ai crimini delle mafie, allo sfruttamento del lavoro, ai disastri ambientali, alla speculazione edilizia, al deturpamento paesaggistico e a una miriade di scandali finanziari e politici che l’hanno spesso condotta a cambiamenti radicali che avevano un fondo di fuga dalle responsabilità, più che della soluzione.

Se tutto questo ha in qualche misura beneficiato, se così si può dire, di forme talvolta maldestre e drammaticamente superficiali di riconoscimenti, nonostante i morti, nonostante i disastri, l’orrore morale e materiale perseguito dal sistema sanitario continua a godere di luogo a procedere in un silenzio generale composto da consensi mentali per cui certi strumenti, certe aberrazioni, perché sono aberrazioni, vengono considerati assolutamente normali e accettabili. E la pandemia lo ha dimostrato appieno, dando dell’eroe all’infermiere e al medico che sotto il loro lavoro ci sono rimasti, e ai vivi, ai sopravvissuti, che continueranno a lavorare secondo contrattualizzazioni precarie e vergognose. Come loro, tanti altri operatori dei personali medici. E non soltanto loro. Perché in questo paese pure ai morti vengono chiesti i sacrifici. Perché un lavoratore costretto a lavorare secondo regole ingiuste, di fatto, è più vicino alla morte che alla vita.

Anche quest’esperienza sarà messa alle spalle – non superata, attenzione – secondo il solito meccanismo per cui a entrare in azione è l’illusionismo. Gli avvenimenti saranno descritti e posti in un modo, non in un altro, non in tutti gli altri. L’angolazione più ingannevole diventerà la storia ufficiale. Si adopereranno i cronisti ufficiali, i media ufficiali, e in questi rientreranno pure quelli che sembreranno in contrasto, le voci ufficiali, il pensiero ufficiale, il contraddittorio ufficiale. Ogni cosa ufficiale necessaria per dar vita alla Repubblica ufficiale.

La “caverna” governerà gli eventi secondo una distinzione tra il bene e il male che si fonderà sull’alterazione della percezione. Come è sempre stato. Dentro questo sistema di leve ufficiali cadranno i caduti. E solo per caso ci sono finiti dentro alcuni anziché altri. Il discapito e il vantaggio saranno sempre soggiogati da un caos che, sempre restando nella “Repubblica”, non beneficerà delle revisioni e dei pentimenti di Er, al quale sarà chiusa la bocca per sempre. Non gli sarà permesso di testimoniare l’utilità dell’errore in favore dei posteri. Non gli sarà consentito di aggirarsi tra i morti per comprendere quanto sia preziosa l’esperienza errata per far sì che essa non si ripeta. No, nulla di tutto questo. Al bando Er, in prigione Er, segregato Er, se necessario, assassinato Er. E soltanto questa è la Repubblica che ci s’illude di celebrare.

Nessun’aria di festa. Mai, anche quando tutto sarà alle spalle. Ci meritiamo solo questa normalità dove nessuno sa se viva dentro o fuori la caverna. Riposino nessuno sa dove, se possono farlo, tutti quelli che hanno pagato a caro prezzo in nome della Repubblica. Riposino lontano dalle celebrazioni, dove, tornando per un istante a Ungaretti, cresce quell’erba “lieta dove non passa l’uomo”.

In copertina Francisco José de Goya y Lucientes, Las Parcas, o Átropos

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