Stranger Things 2, i limiti del gioco

Di tutti gli azzardi e le stranezze che caratterizzano Stranger Things, la più coraggiosa tra le anomalie sarebbe stata che la serie Netflix si limitasse a una sola stagione autoconclusiva, sfuggendo alle logiche del mercato e all’obbligo di autoreplicarsi slittando dall’omaggio citazionista alla tautologia. Questo bilico è l’aspetto più deleterio della serialità, che nel suo esplorare tutte i possibili sviluppi di un soggetto può approfondirne i risvolti inesplorati, oppure impoverirne l’impatto iniziale fino all’azzeramento. Avevamo già trattato su queste pagine il primo ciclo del telefilm dei fratelli Duffer, ponendo il dubbio di riuscire ritrovare la stessa freschezza creativa in un sequel, ora a conclusione della nuova stagione proviamo a tirare le somme delle nove puntate di questo Stranger Things 2.

Forti del grande riscontro di pubblico e di critica riscosso con la prima uscita del 2016, gli showrunner hanno battuto un terreno sicuro ma impegnativo, dovendosi dividere tra lo spirito conservatore dell’operazione-nostalgia e il bisogno fisiologico di vivacizzare la trama apportando elementi di novità.

Lo scontro del gruppo di amici con la creatura che infesta la comunità di Hawkins aveva chiuso la sua parabola ricorrendo ai più classici ed efficaci ingredienti favolistici. Abbiamo assistito al salvataggio del protagonista in pericolo (Will, prigioniero della dimensione chiamata “Sottosopra”), al sacrificio dell’eroe che s’immola per riportarlo indietro (la sfortunata Undici), si è vista la fine del cattivo dottor Brenner per mezzo della sua stessa macchinazione, infine non sono mancati svariati cliffhanger a lasciare aperti gli spiragli di un potenziale seguito.
Niente di inedito, dunque, in linea al ricalco con cui i Duffer hanno attinto con affetto ed enorme perizia tecnica gli stilemi del cinema fantastico degli anni ’80.

Nel secondo ciclo, venendo meno il mistero del Sottosopra e la sua pericolosità, la dimensione parallela che insidia la nostra è data come assunto palese, per quanto dalle origini ancora poco chiare così come sono imprevedibili gli abitanti mostruosi che la infestano, esseri a metà tra i xenomorfi di Giger o gli Antichi di Lovecraft. Questo disvelamento spinge gli sceneggiatori ad alzare la posta del gioco moltiplicando la minaccia, passata da un unico Demagorgon (come lo battezzano i protagonisti, cultori di giochi di ruolo) a un proliferare di esemplari diretti da un mega-mostro rimasto in contatto telepatico con la sua preda d’elezione, Will.

I ruoli si fanno più emblematici mostrando famiglie regolari assenti o violente in pieno stile Stephen King, contrapposte a personaggi come Joyce (Wynona Ryder) e lo sceriffo Hopper (David Harbour), che nel telefilm rappresentano le figure di riferimento di una madre e un padre ideale. Le dinamiche dell’adolescenza con l’insorgere dei primi problemi di cuore, il conflitto tra scelte personali e identità di gruppo, i cambiamenti dell’età, acquistano rilievo di pari passo alla crescita dei protagonisti, con l’introduzione nella comitiva di soli maschi un elemento femminile di disturbo, Maxine, detta Mad Max. La selvatica ragazza arrivata da poco in città creerà scompiglio nella banda, diventando poi testimone dei fatti straordinari che stanno avvenendo e catalizzare la gelosia di Undici, tornata dall’altro mondo e costretta alla clandestinità per la propria salvaguardia.

La figura della giovanissima telecinetica, interpretata da Millie Bobby Brown con una consumata bravura degna di Meryl Streep, è quella che più degli altri segue un arco evolutivo, diventando una figlia simbolica per lo sceriffo (che ritrova con lei il proprio ruolo paterno perduto), per passare alle ribellioni di una adolescente alla ricerca delle proprie origini e infine mutando in individuo sempre più consapevole del proprio potenziale.

Malgrado ciò, la settima puntata dedicata all’incontro tra Undici ormai dotata di un vero nome e di un passato, e la sua sorellastra Kali, telepate assetata di vendetta, porta a una brusca sterzata della storia, incappando con una imbarazzante caduta di stile nelle peggiori atmosfere del cinema d’azione anni ’80.
Dopo la parentesi metropolitana in cui viene messa in dubbio la morte dell’ambiguo dottor Brenner – ponte teso verso la terza stagione – il gioco delle citazioni torna a funzionare con una riuscita scena d’assedio in cui il Centro ricerche presidiante la frattura dimensionale viene attaccato da molteplici Demagorgon. Qui il riferimento filmico agli Aliens di James Cameron, già ricordato dalla presenza di Paul Reiser, è più coerente e funzionale al contesto, culminando maggior picco drammatico della serie affidato al mite personaggio di Bob Newby, cioè Sean Astin, attore proveniente dalle file dei Goonies di cui è stato uno degli interpreti.

Il finale della stagione due non si discosta dal coronamento di un compito diligente, ben impaginato e recitato con finissima qualità sia dagli adulti, che dai sorprendenti giovani protagonisti. Di tutto uno show  condotto sul filo della prevedibilità, resta vivo infatti il ricordo delle performance commoventi di Will, un Noah Schnapp capace di comunicare anche con gli occhi sgranati, oppure la stralunata simpatia di Dustin (Gaten Matarazzo) e ancora la bravura degli altri straordinari ragazzi, professionisti maturi di cui sentiremo ancora parlare.

La messe di segnali e aperture disseminati nel corso delle puntate spianano la pista di Stranger Things 3, la cui realizzazione è stata annunciata in estate. A questo punto il mestiere prenderà definitivamente il sopravvento su quell’unicum che è stato il tuffo nel tempo del primo ciclo. Come per ogni bel gioco la ripetizione sbiadisce il ricordo e impacchetta la suggestione iniziale ottenendo un prodotto ben confezionato, certo, dall’aspetto allettante, ma che sa sempre più di poco.

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