Le Sorelle Materassi e il dissacrante rapporto mercenario

di Marco Antonio D’Aiutolo

Ma quello che lasciava perplesso l’osservatore, era la classica bellezza del viso sotto la testa bruna, ondulata e lucente; viso di un ovale marcato e aristocratico, spirituale, in cui si attardava all’infinito l’impronta dell’adolescente; e nella cui pelle era la rigogliosa freschezza della gioventù senza lasciar trasparire la vigoria del sangue; di sanguigno non aveva che la bocca: vermiglia, le cui labbra, per la perfetta modellatura, il labbro superiore arricciandosi sporgeva sull’inferiore sensibilmente, per quanto carnose e carnali non apparivano di carne. Soltanto nella scultura greca e in quella del rinascimento ci è dato riscontrare campioni di questa specie: Leonardo, Michelangelo, Donatello, il Verrocchio, ne sarebbero rimasti colpiti”.

È la descrizione di Remo, personaggio chiave del romanzo di Aldo Palazzeschi, Sorelle Materassi del 1934. Le sorelle Teresa e Carolina Materassi, cinquantenni di Santa Maria a Coverciano, nei pressi di Firenze, sono cucitrici di bianco, molto ricercate per corredi da sposa. Conoscevano gli uomini solo “per il più vago e lontano sentito dire”. In casa con loro vivono la sorella minore, Gisella, un matrimonio fallito alle spalle, e Niobe, la vecchia serva, che gli uomini li ha conosciuti, li rimpiange e conserva una forte carica sensuale, anche se con lei sono stati dei mascalzoni.

È in questo contesto che viene a trovarsi Remo, figlio quattordicenne di Augusta, una quarta sorella, vedova, che muore affidandolo alla due sorelle maggiori. Finalmente una carica di vitalità e di esuberanza coinvolge le due zie, conquistate dalla bellezza e dalla disarmante semplicità del giovane! Anche Niobe ne subisce il fascino, mentre Gisella ne rimane indifferente. Anzi rimprovera le sorelle per i troppi vizi del nipote.

Ed effettivamente Remo fa andare in fumo tutti i progetti delle due zie sul suo futuro. Vorrebbero che diventi un ingegnere e, invece, sono costrette a ripiegare su un diploma pratico in una scuola industriale. Ma fallisce anche questo progetto. Remo ama solo il divertimento, e ci riesce benissimo. Si ingrazia le zie, capendo di essere il loro punto debole; le ricatta, quando è necessario; si fa comprare un’auto, con la promessa di troncare una presunta relazione con una cliente di cui loro sono gelose. E, a causa della sua vita dispendiosa, Teresa e Carolina spendono sempre di più fino ad ipotecare beni, firmare cambiali, procurare la dote ad una lavorante messa incinta dal nipote. Nessuna predica ferma Remo, che se ne va in giro per il mondo con il suo inseparabile amico, Palle, figlio di una povera vedova (altra spina nel cuore delle zie che vorrebbero per lui amicizie più alte). Finché a Venezia, scrive loro del suo fidanzamento con una ricchissima americana, Peggy. Si sposa. Le zie partecipano al matrimonio, vestite pateticamente da sposa, e Remo parte per l’America.

Senza più un soldo, le due donne vedono scadere il lavoro e la clientela, adattandosi a standard più bassi. Ma non rinunciano all’adorazione per il nipote. Addirittura cacciano di casa Gisella, sempre ostile a Remo. E il romanzo si conclude con l’immagine delle due donne che insieme a Niobe contemplano estasiate le foto del giovane, una in particolare dove è ripreso in un succinto costume da bagno. Teresa si chiede se sia sconveniente: “Se fossero venute ancora le signore chi lo sa…se si poteva tenere. Avrebbero arricciato il naso e storto un po’ la bocca probabilmente”. Niobe, però, le rassicura: “Sì…ma dopo aver aperto bene gli occhi”.

In linea con gli argomenti trattati negli ultimi articoli, riporto immediatamente l’attenzione sulle figure femminili del romanzo di Palazzeschi. Ci si potrebbe chiedere se “l’imprevidenza inverosimile” delle zie, come ha sostenuto la critica, non ingeneri “via via nel lettore la sensazione di una incurante stupidità” (M. Miccinesi, 1979). Ci troviamo forse – per esprimerci con linguaggio attuale – di fronte a donne vittime di un maschio narcisista patologico? Ritorna qui La femme n’existe pas di Jacques Lacan? Francesco Gnerre, di cui stiamo seguendo la descrizione e l’interpretazione degli scrittori omosessuali nel Novecento italiano, è di tutt’altro avviso.

La critica – scrive in Eroe negatoha letto nel romanzo il confronto tra uno spirito giovanile…e una società antiquata, ottocentesca, tramontata…e ha messo in evidenza di volta in volta la felicità della narrazione e l’atteggiamento ironico…ma non riesce a spiegare l’inverosimiglianza del comportamento delle sorelle Materassi”. Come già osservato nell’articolo su Aldo Palazzeschi [rimando], egli coglie nel romanzo “la continuazione di un discorso letterario sostanziato da una forma di autobiografismo simulato” e sono numerosi gli indizi in cui coglie l’omosessualità o comunque forme di ambiguità sessuale.

Innanzitutto la figura della contessa russa (molto simile a quella delle opere precedenti: la contessa Marina del Pioppo nel Re bello e la contessa Maria dell’Interrogatorio), che compare nel romanzo e fa la corte a Remo facendo ingelosire le sorelle Materassi. Trasferitasi sulle colline toscane, la contessa, ricca e vedova, trova uno “spregiudicato e disinvolto paradiso tutto basato sulla libertà sessuale e sull’amore per i giovani ‘dopo aver disertato, e senza rimpianto, i campi dello spirito’”. Gnerre pone in evidenza le allusioni alla grecità presenti nelle parole della donna “che in tanta letteratura dei primi decenni del secolo rimanda all’“amore greco”, cioè all’omosessualità.

Il secondo indizio è il modo in cui Palazzeschi si diverte a rappresentare le due attempate sorelle: “a volte estasiate, a volte turbate, ma sempre in adorazione della bellezza maschile.” Anche il ritratto di Remo, con cui ho introdotto il presente articolo, è solo uno tra i tanti e tutti appaiono “ad un lettore attento carichi di erotismo. Il punto di vista è sempre femminile, ma con tutte le ambiguità dei personaggi femminili di Palazzeschi, a cominciare dalla misoginia.

Infatti, si legge nel romanzo: “Con le donne erano spietate. Anche se belle o carine, un difettuccio glielo volevano trovare per schiacciarle, diminuirle, ridurle in polvere: dovevano essere almeno cattive.” E Niobe non è da meno. “Considerava la donna in genere una merce vile e il maschio soltanto degno di rispetto e di stima.” Anche la fidanzata americana di Remo è, per Niobe, “come tutte le altre donne…(dicendo ‘donne’ pareva nominare una merce all’ingrosso, dei commestibili di pura necessità)”. Si tratta, allora, di maschilismo interiorizzato? La donna non esiste?

Gnerre, tuttavia, fa alcune osservazioni anche sulla figura maschile-chiave del romanzo. Essa si pone distante mille miglia dall’idea di virilismo proprio di una certa moralistica rispettabilità: “Remo, ad una lettura attenta, appare un po’ come una specie di marchetta che gioca con spregiudicatezza e spavalderia perché sa di poter contare sulla sua bellezza.” La storia delle due donne è, per Palazzeschi, “un dissacrante e spregiudicato rapporto mercenario”, descritto con una disillusa e autoironica visione del mondo. Con Remo, le due zie spendono i loro soldi, ma non rimpiangono nulla: “il ragazzo ha avuto il potere di trasportarle ‘fuori della realtà, in un sogno felice dal quale non avrebbero voluto essere ridestate’.

Il maschio sarà pure la figura chiave. (Non saprei dire se sia simile al Don Giovanni di Molière o al pederasta di Una giornata particolare di Ettore Scola). Ciò che emerge, però, è la sostanza delle donne. Una sostanza che scardina l’ordine costituito. Infatti, dopo aver cacciato via la sorella ostile che non fa che rimproverare la loro stupidità, nel romanzo si legge: “Avevano perduto tutto, non avevano nemmeno da mangiare, ma si sentivano liberate dalla presenza inquisitrice del testimone ostile, del giudice crudele; del nemico, dello straniero. Sentivano per la prima volta di essere davvero padrone della loro casa: “Ah! Oh!’.” Nell’ultima scena, in cui contemplano la foto di Remo in costume, loro e Niobe sembrano aver la consapevolezza di aver speso bene i loro soldi. “Comportamento insensato?”, conclude allora Gnerre. “Non per il narratore che vuole stravolgere l’aspettativa del lettore e nemmeno per molti lettori che hanno colto il ‘giuoco’ dello scrittore.

 

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