The Defenders, una somma che non fa il totale

La programmazione di Netflix, impegnata a tradurre televisivamente una parte dell’universo Marvel, ha costruito dal 2015 un mosaico newyorkese iniziato con Daredevil e proseguito tassello dopo tassello con successivi cicli  su Jessica Jones, Luke Cage e Iron Fist. Chiave di volta di quest’operazione, calare la figura del giustiziere in un contesto metropolitano, dove si potesse misurare, a prescindere dei superpoteri, con minacce dalle motivazioni (e conseguenze) credibili. L’idea sulla carta parrebbe ottima e l’intensità drammatica del capostipite cieco sembrerebbe confermarlo, purtroppo lungo il percorso la produzione non è sfuggita a cadute di stile e compiacimenti narrativi che hanno portato a risultati qualitativi altalenanti.
L’eccessiva lentezza di Jessica Jones, la schematicità di Luke Cage, il disastroso trattamento riservato a Danny Rand/Iron Fist sono fra le debolezze che, sommandosi insieme nello script dei Defenders, hanno moltiplicato i fattori deterrenti dei singoli eroi invece di rafforzarli in un’esplosiva identità di gruppo.

Nel progetto di cross-over nato nel 2013 e terminato quattro anni dopo, gli autori Petrie e Ramirez hanno associato un team di figure schive e individualiste, giustificandone l’adunata con un nemico comune e di taglia superiore alla media. Un compito cui poteva prestarsi bene solo l’attività pervasiva della Mano, la società segreta creata nel ’81 da Frank Miller, che, attraverso contraddittorie riproposizioni, ha finito a dimostrarsi serial dopo serial un trait-d’union paradossalmente privo d’identità.

I Ninja quasi super-umani apparsi in Daredevil erano già stati  ridefiniti e resi vulnerabili in Iron Fist, il cui trascorso nel monastero asiatico di K’un L’un è alla base della connessione tra malavita, giochi di potere ed esoterismo che caratterizza la setta. Della società segreta avevamo visto anche le ramificate attività criminali gestite dalla malvagia Madame Gao (Wai Ching Ho), incarnazione femminile del “pericolo giallo”, enigmatico e mortale come il Fu-Manchu di Rohmer. Nei Defenders la sua leadership viene messa in ombra dalla presenza sempre carismatica di Sigurney Weaver, stavolta poco plausibile e sfocata nel ruolo di guida di una tong secolare dedita a pratiche occulte. Anche l’elemento magico attinto dalla creazione Milleriana, non mantiene l’originale forza immaginativa (vedi l’asservimento della setta a un demone che gli conferisce poteri), riducendosi a un mero gadget funzionale al racconto, un bandolo che riunisce in una sola matassa il destino guerriero di Elektra (Elodie Jun) e il suo rapporto conflittuale con Matt Murdock/Daredevil (Charlie Cox), la guerra intrapresa dal loro mentore Stick (Scott Glenn) e il sempre più disorientato Danny Rand/Iron Fist (Finn Jones) maltrattato dagli sceneggiatori con un trattamento davvero infelice.

Dopo una parentesi di presentazione dei quattro componenti, resa attraverso un prologo che ne illustra gli ambienti caratterizzati da differenti cromatismi fotografici, il riluttante super-gruppo si forma poco alla volta, sulla spinta di circostanze che non conducono all’immediato riconoscersi in una squadra.
Tutto ciò risulta coerente col carattere di ognuno, portato per ragioni personali alla diffidenza e alla solitudine, al tempo stesso non aiuta la crescita della trama, che pare voler scappare da tutte le parti. Jessica Jones, ben disegnata da una spigolosa Krysten Ritter, rimane la più irriducibile nel suo ruolo di “dura” tutta alcool e cinismo, i tormenti di Matt Murdock reggono altrettanto bene nel dare spessore a una figura lacerata tra valori opposti (vita da vigilantes/legalità, violenza/religione), meno efficace risulta Luke Cage (Mike Colter), che pur umano e comprensibile nella sua strenua difesa del proprio vissuto, nell’economia della storia appare piuttosto elementare. Un discorso a parte merita Iron Fist, personaggio che anche qui continua a non decollare caricandosi un ruolo al limite del macchiettismo, ossia l’anello debole del gruppo braccato dalla Mano per fini misteriosi, cui presterà per irruenza un aiuto involontario.

Nel dipanarsi degli episodi, appesantiti soprattutto nel prologo da un ritmo fiacco, l’incomunicabilità tra i protagonisti ostacola il formarsi di un’identità di gruppo, remando contro l’idea stessa di team-up a cui si assiste pienamente solo nel finale apocalittico tra combattimenti, esplosioni, crolli e profusione di morti. Una sbrigatività da vecchio romanzo hard-boiled in cui si risolvevano i nodi del racconto cancellando a suon di revolverate i personaggi diventati di troppo.

L’impressione è di assistere a un’occasione perduta, dunque, a cominciare dal cattivo utilizzo di una maschera drammatica come la Weaver, eliminata repentinamente senza che il suo ruolo potesse svilupparsi appieno. Altrettanto impoverito viene fuori anche il carattere della bella sensei Coleen Wing (Jessica Henwick), ridotta al rango di ragazzina insicura che piange il sequestro della propria spada, come se fosse stata la coperta di Linus.

La presenza di buoni comprimari, Rosario Dawson nella saggia infermiera Claire Temple e la poliziotta Misty Knight (Simone Missick)  non aiuta a sollevare il senso di superficialità e di poca ispirazione del progetto, uscito peraltro ad agosto, scelta che ne ha decretato un ulteriore perdita di pubblico.
Da una partenza poco ispirata si stenta a credere che possa seguire un seconda stagione, anche se nei piani originari era stato ventilato dalla dirigenza esecutiva anche un possibile passaggio al grande schermo. Sta da vedere se il rating poco entusiasmante renderà possibile la cosa. L’ultima immagine del telefilm mostra Matt Murdock assistito da una suora in un letto d’ospedale, forse non la migliore delle prospettive, ma che appare più incoraggiante se associata al titolo del fumetto di Miller citato dall’inquadratura: Born again. Per gli affezionati, una nota di speranza.

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