Intervista a Leonardo Di Costanzo: invito nella casa del vicino

L’intrusa è il secondo lungometraggio di finzione di Leonardo Di Costanzo, regista e sceneggiatore italiano, attivo soprattutto nel documentario. La sua opera precedente, L’intervallo, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2012, vinse il premio come miglior film nella sezione “Orizzonti”. Scritto dal regista insieme a Maurizio Braucci e Bruno Oliviero, L’intrusa è stato presentato con successo alla “Quinzaine des réalisateurs” all’ultimo Festival di Cannes (da dove lo avevamo recensito lo scorso maggio), ed è da ieri nelle sale italiane. Abbiamo incontrato Di Costanzo per discutere con lui su alcuni aspetti del suo film.

 

Come nasce l’idea del film?
Diciamo che un po’ per mestiere un po’ per interesse, sono sempre stato vicino al mondo che si vede rappresentato nel film. La mia attività di documentarista e di docente [alla scuola del documentario “FIlmaP”, sorta di atelier del cinema del reale, ndr], mi ha messo spessissimo in contatto con la realtà della periferia napoletana. Conosco molte persone impegnate nel sociale, che vivono esperienze in cui il sociale diventa anche un laboratorio di sperimentazione politica. D’altronde, in certi àmbiti e in certi luoghi, lavorare o fare volontariato diventa un’esperienza di limite, di confine, che porta le persone a modificare continuamente il loro agire in una realtà che spesso rischia di sfuggire di mano. Avevo pensato inizialmente di girare un nuovo documentario ma l’ambiente che volevo raccontare questa volta mi ha posto dei problemi di natura etica: non mi andava di filmare persone che dovevano farsi riprendere magari controvoglia, invadendo un po’ il loro mondo. Così ho pensato di coinvolgere alcune di queste persone in un progetto di film di finzione. Ecco, L’intrusa è un po’ il frutto di varie storie ed incontri che ho poi messo insieme.

Come hai trovato gli attori, in particolare le due protagoniste Raffaella Giordano e Valentina Vannino che vengono da mondi completamente diversi?
Raffaella Giordano mi si è delineata subito nella mente come personaggio. Quando pensavo al suo personaggio, Giovanna, pensavo ad una persona che avesse più o meno quelle caratteristiche fisiche. Poi Alessandra Cutolo, la direttrice di casting, che possiede un talento particolare nello scovare volti, mi ha proposto Raffaella. Lei, come sai, veniva da un mondo completamente diverso: è una coreografa, una performer che si muove tra teatro e danza. Inizialmente è stata un po’ reticente, poi l’abbiamo convinta e lei si è messa coraggiosamente in gioco. Per la disponibilità che chiedevo, cercavo persone che avessero fatto esperienze teatrali negli anni ’70. È stato bello e, per certi versi, difficile lavorare con lei che non aveva molta confidenza con le parole. Il nostro è anche un film di parole, di dialoghi, e lei era abituata ad esprimersi soprattutto con il corpo, con il gesto. Quanto a Valentina Vannino, Alessandra l’ha incontrata per puro caso davanti ad una scuola. Entrambe – Alessandra e Valentina – erano andate a prendere i propri figli. Alessandra l’ha notata, le ha proposto di venire a fare un provino e lei è venuta. Sul set era inizialmente impacciata, perché lontana dal mondo del cinema ed era totalmente all’oscuro di tutto quello che c’è “dietro” la lavorazione di un film. Ma poi pian piano è entrata perfettamente in sintonia con tutti noi, portando anche molta della sua personalità. Sono molto soddisfatto del lavoro che abbiamo fatto con lei, che si è data al progetto con grande dedizione nonostante avesse l’impegno di due figli cui badare.

L’intrusa mette in campo un grosso dilemma morale che interroga costantemente lo spettatore cui viene quasi posta la domanda: “Ma tu che faresti in questa situazione?”. Come avete lavorato su questo punto in sede di sceneggiatura con Maurizio Braucci e Bruno Oliviero?
Sì, è vero quello che dici. Abbiamo subito pensato che questa storia poteva essere interessante a patto di riuscire a dare voce a tutte le parti in causa: tutti i personaggi (Giovanna, Maria, Sabina, ecc,) dovevano esprimere la propria storia, in modo che lo spettatore desse ragione sempre all’ultimo personaggio che parlava, come quando, in un ragionamento collettivo, ogniqualvolta qualcuno inserisce un nuovo punto del discorso tu sei portato a dire: “Beh, anche questo è giusto”. Quando facevo il casting, ho anche chiamato persone vere (prèsidi, assistenti sociali) e loro improvvisavano raccontando molte storie che hanno poi arricchito il nostro discorso. Tutti hanno capito l’importanza e la serietà di una storia dove il centro del problema è il fatto che ci sia una persona uccisa con tutte le conseguenze che un fatto così tragico comporta. In questo senso, il mio unico rimpianto in un film del quale sono molto contento, è quello di non essere riuscito a dare maggiore spazio alla vedova dell’uomo assassinato dal marito di Maria, che compare solo in un paio di scene. Dalle mie parti, a Ischia, si dice: “Una casa si dovrebbe poter costruire due volte: una volta per vedere come è venuta, una seconda per riparare gli errori e fare i dovuti accorgimenti”.

Sempre a proposito di lavoro con gli attori, come ti sei regolato con i bambini, cioè come si sono rapportati con te sul set e come hanno preso l’idea di prendere parte ad un film?
Con Antonio Calone [l’acting coach del cast, ndr], ci siamo inventati un metodo, che fosse sia un progresso che un prosieguo rispetto a L’intervallo, dove avevo in scena due attori giovanissimi e non professionisti. Sul set, inizialmente improvvisavamo con scene inventate per far “riscaldare” i bambini. Man mano che si andava avanti, poi, i bambini – che a mio avviso sono attori “naturalmente” straordinari – capivano i loro personaggi riuscendo talvolta a portare persino modifiche e a reinventare. Sono stati davvero molto bravi.

Sebbene la vicenda sia diversa (nel film infatti non si parla di migranti), dal racconto viene fuori qualcosa di molto attuale, e cioè la paura del “diverso”, o almeno di qualcuno percepito come tale e, perciò, tendenzialmente pericoloso. Ci avete pensato in sede di scrittura?
Certo. C’è la paura del gruppo che costruisce delle regole in cui tutti si riconoscono fino a quando interviene un elemento (umano) estraneo che viene vissuto come un pericolo. In effetti, ad un primo approccio, questo è anche abbastanza comprensibile. Una donna a Pordenone mi ha detto: “Io capisco anche le mamme”. C’è inoltre da aggiungere che lo spettatore, rispetto ai protagonisti del film, ha una sorta di “vantaggio” che il cinema gli dà.

In che senso?
Nel senso che lo spettatore può entrare dentro la casa di Maria, può sorprenderla mentre piange, mentre affronta in solitudine il suo percorso di redenzione. Allo stesso modo molti di noi, come le mamme del film, non sanno nulla di quanto accade o è accaduto alle persone che vediamo arrivare con i barconi. Ci chiediamo: “Saranno delinquenti, terroristi, poveracci?”. È necessario spostarci leggermente dalle nostre paure e dalle nostre sicurezze ma spesso non vogliamo farlo. La violenza con cui queste persone vengono accolte nasconde una scarsa volontà di empatia. Se invece ciascuno di noi avesse la possibilità di conoscere le loro storie, ma conoscerle davvero, le cose potrebbero cambiare. A quel punto, è ovvio che se uno si mettesse a pensarci non potrebbe che essere dalla loro parte.

Che idea hai tu di luoghi come “La Masseria”? Al di là del fatto che sono sicuramente preziosi e le persone che ci lavorano sono commendevoli, non pensi però che, dall’altro lato, deresponsabilizzino un po’ lo Stato e i suoi doveri?
Questo è chiaro. Purtroppo, in certi casi, la situazione è anche più complessa. Ci sono dei luoghi dove lo Stato, più che arrendersi, non ha mai veramente combattuto. Nel mio documentario, A scuola, mostravo come spesso le istituzioni sono incapaci di costruire progetti per le classi meno abbienti. A volte, più che di volontà, mancano di strategie, e quindi gli operatori sociali devono inventarsi un metodo. Tra l’altro, all’interno del cosiddetto “terzo settore” c’è un dibattito molto ampio sul fatto di accettare o meno soldi dallo Stato. Mi è capitato di imbattermi in associazioni e di conoscere sacerdoti che non hanno molta fiducia nell’azione delle istituzioni. Su questo aspetto le divisioni politiche su come relazionarsi con lo Stato sono talvolta molto forti.

Come è stata l’esperienza di Cannes? E’ un po’ un peccato, forse, che il film non fosse in Concorso. D’altra parte, però, la “Quinzaine des réalisateurs” quest’anno aveva un vero e proprio parterre de roi, da fare invidia al Concorso. C’erano autori come Sharunas Bartas, Claire Denis, Bruno Dumont, Abel Ferrara, Philippe Garrel, Amos Gitai
Beh, a dire la verità, venire a Cannes, per quanto bellissimo, è stato un po’ come entrare in un vortice. Nei giorni in cui ci sono stato l’ufficio stampa mi portava in giro di qua e di là per questa o quell’intervista, questo o quell’intervento. Ricordo però con grande gioia la proiezione con il pubblico, che è stata molto bella e partecipata. In particolare, mi ha colpito molto uno spettatore che mi ha detto: “Questo film dovrebbe andare al G7”. La cosa bella della Quinzaine è che, come mi ha spiegato il Direttore Edouard Waintrop, lì c’è molto pubblico, mentre il Concorso principale è riservato prevalentemente agli addetti ai lavori. Sono molto contento che il film avrà una distribuzione anche in Francia dove uscirà a dicembre.

Ma alla fine, in termini generali, che cos’è un intruso, che figura rappresenta?
Difficile da dire. Secondo me a volte essere intrusi è un errore, una colpa da espiare. A volte, invece, è una necessità. Forse, riguardo alcune cose che avvengono nel mondo, piuttosto che voltarci dall’altra parte, dovremmo essere più partecipi, anche a rischio di sembrare intrusi o essere accusati di esserlo. Ecco, in certe casi essere intrusi può anche essere una virtù.

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