Venezia 74 “Downsizing” di Alexander Payne: americani ristretti

Un silenzio di alcuni, interminabili (e significativi) secondi prima di un po’ di applausi veloci e poco convinti ha accompagnato la comparsa dei titoli di coda di Downsizing, film d’apertura del Concorso veneziano, diretto da Alexander Payne, regista nativo di Omaha, Nebraska, Stato delle Grandi Pianure dove sono spesso ambientati i suoi film. In questo senso, il settimo lungometraggio dell’autore di Sideways non fa eccezione, sebbene Omaha sia questa volta solo uno dei tanti luoghi di un film che fa della dislocazione uno dei suoi punti caratterizzanti. Infatti, la storia ha inizio in Norvegia (e lì anche si conclude) dove uno scienziato ha inventato una medicina capace di trasformare gli esseri umani in creature in miniatura, dell’altezza di circa 12 centimetri, con lo scopo di contribuire alla salvaguardia del pianeta, attraverso una consistente riduzione dei rifiuti, e garantire a chi si sottopone al trattamento la possibilità di vivere di rendita. Una giovane coppia, i coniugi Paul (Matt Damon) e Audrey Safranek, alla ricerca di un mutuo che sembra non arrivare mai, decide di sottoporsi all’irreversibile trasformazione in modo da utilizzare il denaro risparmiato per acquistare la casa dei sogni nella nuova mini-città di Leisureland. Peccato, però, che all’ultimo momento la donna si tiri indietro abbandonando per sempre il marito nelle sue mutate dimensioni. Complici un estroso vicino di casa serbo (Christoph Waltz) e un’instancabile attivista vietnamita, Paul approfitterà, però, della sua nuova condizione per aprire gli occhi sul mondo.

Downsizing è probabilmente il film più ambizioso di Payne, autore che ha fatto del minimalismo (molto) vagamente indie uno dei suoi marchi di fabbrica e che ora, insieme al fido co-sceneggiatore Jim Taylor, si cimenta con una storia dai chiari risvolti fantastici mescolando la letteratura utopistica incentrata sulla “città ideale” con l’ecologismo dei nostri giorni e il conseguente e giustificato timore della scarsità delle risorse del pianeta Terra, che stanno mettendo sempre più a rischio la sopravvivenza della specie umana. Come si può capire, le intenzioni sono lodevoli ed il tema è più che mai all’ordine del giorno, così come apprezzabile è il tentativo del regista di lanciare ai propri connazionali un monito e una critica all’American way of life. Purtroppo, però, nel criticare la mancanza di prospettiva e di profondità nella visione del mondo da parte dell’uomo medio statunitense, il regista finisce per dimostrare, a sua volta, una superficialità che gli impedisce di portare avanti un discorso credibile che vada oltre il luogo comune e sia capace di sollevarsi da una visione stereotipata e superficiale del problema trattato. Basta pensare al paternalismo di molte scene che permeano il rapporto tra il protagonista e Gong Jiang, la sua nuova amica vietnamita, e alla visione da cartolina illustrata con cui nell’ultima parte viene rappresentata la Norvegia.

Inoltre, incapace di creare un universo creativo e visivo degno di questo nome (viene da chiedersi come sarebbe stata una storia del genere nelle mani di un Terry Gilliam nel pieno della forma), Payne e il suo sceneggiatore si affidano troppo spesso alle parole per esplicitare il “messaggio” (già chiaro fin dalla lettura della sinossi) riducendo la complessità del tema a spot ambientalisti, inattaccabili nel merito ma citati assai sterilmente. Anche la storia d’amore tra Paul e Gong Jiang appare stucchevole e scontata, responsabile tra l’altro dell’eccessiva durata (135 minuti) di un film che avrebbe necessitato di più di una potatura. Più che i personaggi, quindi, ad essere ristrette sembrano quindi essere le idee del regista.

Tra le altre visioni della giornata, una bella sorpresa viene invece dal cinema italiano con il bel Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, presentato nella sezione “Orizzonti”. Il terzo lungometraggio della regista romana ruota intorno agli ultimi due anni vita della cantante tedesca, ex-voce dei Velvet Underground e poi musa di Andy Warhol. Nicchiarelli dirige molto bene una straordinaria Tryne Dyrholm, che conferisce spessore, umanità e profondità al controverso personaggio che è chiamata ad interpretare, regalando almeno due-tre momenti di autentica commozione. Nico, 1988 era un’opera cui molti addetti ai lavori guardavano con sospetto e preoccupazione, e che aveva in effetti sulla carta molte insidie che però l’autrice di Cosmonauta riesce a superare in virtù di una messinscena che punta, a ragione, sulla fisicità della protagonista, riuscendo a restituire sia le sbavature che l’emotività della leggendaria cantautrice.

 

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