Watchmen, ovvero. la potenza di un “invece” – parte seconda

[per chi avesse perso la prima parte, è possibile leggerla al seguente link: http://www.rivistamilena.it/2021/03/11/watchmen-ovvero-la-potenza-di-un-invece-parte-prima/]

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Dal finire degli anni ’60 il processo di rottamazione dei vecchi schemi narrativi non smette di eroderne gli assunti, accordandosi alla crisi di valori e alle nevrosi del contemporaneo, per trovare un punto di svolta nella calata agli inferi del più tenebroso dei difensori: Batman.

Nella celebre saga del Cavaliere Oscuro, Frank Miller riazzera le sfaccettature del personaggio della DC comics, che nell’86 riporta alla dimensione dark delle origini con una pluripremiata miniserie dalla scrittura nervosa, stilizzata e psicologica che diviene prima un canone, poi uno stereotipo logorato fino al manierismo per gli sceneggiatori che si sono succeduti nella miniera degli rovelli dell’uomo-pipistrello. Il trattamento milleriano spinge il pedale del dramma collocando i propri giustizieri (vedi anche la precedente rilettura di Daredevil e Wolverine per la Marvel) in una dimensione tragica ed epica che mantiene comunque separate le ombre dalle luci. Se da una parte a rappresentare il “Bene” viene messo in scena un uomo violento e disturbato, dall’altra l’arcinemico Joker polarizza in sé il “Male” assoluto, così gratuito e ingiustificabile da offrire un fronte ben preciso contro cui l’eroe dovrà opporsi, pena la perdita della propria identità.

I Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, invece, arrivano a radere al suolo il distinguo che ha sempre assicurato legittimità alle azioni dei propri paladini, sporcandoli abbastanza di iperrealismo da portarne a nudo l’anima nera nascosta sotto la maschera. Dalla serrata messa in discussione del ruolo stesso dell’eroe, quel che emerge è il disincantato ritratto di personaggi complessi, conflittuali, talvolta falliti o emarginati, mossi da motivazioni che nella migliore delle ipotesi risultano e puerili e narcisiste, se non distorte da ideologie aberranti e forcaiole.
Parliamo di gente dal pugno facile, tanto manichea nel giudicare i “cattivi” quanto ansiosa di punirne i torti di persona e a forza di botte. Gente labirintica e frustrata, a volte patetica nella propria ingenuità o semplicemente ottusa. Brutta gente, insomma.

Dopo la “purga” dello sceneggiatore inglese, nell’empireo degli eroi di carta le cose sono parecchio cambiate, aprendo la via a una rivoluzione destrutturante che li ha portati a ribaltare completamente le proprie funzioni. L’impossibilità di separare il bene dal male nelle azioni dei cosiddetti “dotati”, infatti, riflette i dubbi di una società ormai incapace di fare distinzioni, immersa com’è in un relativismo storico che calpestando ogni regola non si è evoluto in un livello più alto di coscienza, per liquefarsi invece (usando una metafora di Bauman) in una brodaglia mutevole, acritica, dove galleggiano precarie zattere di pensiero senza rotte né timone. In parole povere, il nostro senso della realtà si è abbastanza spanato da renderci assuefatti a tutto, rendendo, per esempio, plausibile e “normale” che la presa del Parlamento americano assalito da torme di patrioti guidati da un signore travestito da bufalo, non sia una puntata dei Simpson, ma una notizia dagli esteri del telegiornale. Per tornare al fumetto, ben vengano, dunque, i prodotti più estremi di questa caduta di argini, L’enorme fascia grigia che c’è nella dicotomia eroe/antieroe ha occupato la ribalta, permettendo che serie iconoclaste e politicamente scorrettissime (vedi il Preacher o The Boys di Garth Ennis) approdassero al piccolo schermo mentre Kick Ass ha fatto da strada nel cinema al pantheon nichilista dei personaggi di Mark Millar.

Resta bizzarro il fatto che, nonostante l’affermarsi di un simile atteggiamento provocatorio svincolato da ogni convenzione, etica o narrativa, l’andare a toccare una pietra miliare dell’immaginario contemporaneo come Watchmen, abbia instillato diffidenza anche al nerd più acritico. La riuscita dell’operazione di Lindelof, confermata da un’impressionante sfilza di premi e candidature ricevute all’Emmy Awards del 2020, invece, funziona proprio facendo sua l’ottica di rottura e ricomposizione dell’immaginario che ha caratterizzato l’ultimo quarantennio.

Muovendosi nell’ambito blindato di un plot che avrebbe legato le mani a chiunque, cioè il perfetto, concatenato dispositivo creato da Moore, doveva apparire chiaro che lo spostamento anche di un singolo ingranaggio avrebbe potuto deformare irrimediabilmente il senso della storia. Un salto in avanti temporale e la lateralità del punto di vista diventano perciò la chiave vincente che consente allo showrunner di dare coerenza e freschezza a quel che poteva rischiava di essere un piatto riscaldato.

Per operare nel solco della storia madre, lo sceneggiatore statunitense riduce al minimo indispensabile il tributo ai titolari della graphic novel, dei quali avvertiamo l’eco della presenza evocata con pochi segni significativi (il giustizialismo reazionario di Rorschach, il velivolo di Nite Howl, Anacleto, entrato in dotazione alle forze di polizia, la linea telefonica Terra/Marte che connette col Dr.Manhattan). A questi rimandi simbolici, si aggiungono come presenze attive solo un’invecchiata e cinica Silk Spectre-Jill Jupiter (interpretata da Jean Smart) divenuta cacciatrice di vigilantes per l’FBI e la trasfigurazione caricata di tratti grotteschi e sopra le righe di Ozimandias/Adrian Veidt resa con poca convinzione da un impacciato Jeremy Irons, costretto in una buffoneria che non si adatta alle sue corde drammatiche. Altra cerniera con il mondo creato da Moore è una figura estrapolata dalla squadra dei Minutemen, primo supergruppo all’origine dei Watchmen, di cui sappiamo poco, abbastanza poco da consentire a Lindelof di costruire una storia dentro la storia, come nei pastiche citazionisti dello scrittore Philip Josè Farmer. Si tratta di Hooded Justice, il gigante incappucciato di cui non abbiamo mai conosciuto le origini e l’identità, che, in interpreta un personaggio doppiamente scomodo – poliziotto di colore nell’America razzista del’38, marito amorevole che ha una relazione omosessuale col bianchissimo Captain Metropolis/Nelson Gardner (Jake Mc Dorman).

A questa nemesi dei razzisti annidati nella polizia stessa (in passato e in futuro, come si vedrà), è affidato il fil rouge che si dipana rivelazione dopo rivelazione lungo le 9 puntate della serie. L’imponente vendicatore (Lou Gossett Jr nella versione invecchiata, Juven Arepo in quella giovanile) incarna in sé la carica di rabbia e volontà di rivalsa alimentata dalle ingiustizie subite dai coloured che si traduce in un’inarrestabile reazione più forte di qualunque superpotere. Notevole in tal senso è anche il valore “cristologico” del cappio al collo che indossa il giustiziere, cioè uno strumento di martirio (tipico delle esecuzioni del KKK) che, come la croce, si fa simbolo del proprio riscatto.

Nell’economia del racconto, ben intrecciato in una serie di fili sospesi appartenenti a un unico disegno, si tratteggia l’eterna lotta per la sopravvivenza che oppone popoli diversi risiedenti sullo stesso territorio. Sullo sfondo del mondo futuro agitato da tensioni sociali mai superate, si muovono personaggi credibili, ben motivati, indirizzati al proprio destino dalla relazione di causa-effetto che ne guida ogni attimo della vita. Una percezione del tempo “simultanea” che in una sorta di moderna tragedia greca è passata di mano dal filo intessuto dalle tre Parche alla visione sub-atomica, ma altrettanto ineluttabile, del Dr. Manhattan.

I veli che offuscano la forma dei fatti a venire si sfilano rivelando complotti, segreti e colpi di scena che anche la reticenza più serrata di queste righe rischia suo malgrado di rivelare. Non ci addentriamo oltre lasciando allo spettatore la scoperta dei tanti temi sospesi del serial. A differenza del semidio azzurro di cui sopra, a noi umani basta poco, ed è subito spoiler.

 

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