“Falstaff” di Orson Welles, il paradiso può attendere

“Anche se i bei vecchi tempi non sono esistiti mai, il solo fatto che riusciamo a concepirli è un’affermazione dello spirito umano.”
Orson Welles

Due uomini dediti ai bagordi e alle baldorie, frequentatori di taverne e donne equivoche. Uno è giovane, l’altro vecchio; uno è magro, agile e scattante, l’altro obeso, malato e dall’incedere faticoso; uno è ricco, l’altro povero e perennemente indebitato. Uno è Hal, principe di Galles e destinato a succedere al trono di Inghilterra alla morte del padre Enrico IV, l’altro è sir John Falstaff, per gli amici Jack, ladro, furfante, gran bevitore e bugiardo irrimediabile. Uno è destinato ad indossare la corona, l’altro potrà solo fingersi re e mettersi in testa una pentola rovesciata durante una commedia improvvisata, inscenata in una taverna e recitata “a braccio”.

Per questo suo magnifico Chimes at Midnight (Campanadas a medianoche), di produzione spagnola, Orson Welles saccheggiò quattro tragedie di Shakespeare e diresse se stesso e Keith Baxter, ritagliandosi la parte di Falstaff, personaggio recitato in teatro sin dalla gioventù e al quale era perfettamente aderente, sia per la stazza che per temperamento (la scarsa parsimonia e oculatezza dell’autore di Quarto potere sono cose piuttosto note). Non a caso, dei tanti personaggi del “Bardo” messi in scena al cinema e immortalati sulle tavole del palcoscenico, questo era il suo preferito. Welles fece di Falstaff una sorta di hippie ante litteram, un bambino nato già vecchio e coi capelli bianchi e che è, allo stesso tempo, un uomo che rifiuta la serietà e la saggezza proprie dell’età senile (“non è un peccato essere vecchi e allegri”), un anarchico adorabile che, come il mare, è governato dalla Luna e “ha sentito varie volte il suono della campane di mezzanotte”. Sir John è l’ennesima figura di loser incarnata dal grande regista statunitense, il Quinlan degli anni ’60, privo però di qualsiasi obiettivo, a parte quelli del puro divertimento e del rimanere in vita il più possibile.

Diverso da lui è il compagno di sregolatezze, il principe Hal. Come un classico principe machiavelliano, sin dall’inizio è conscio del suo compito e sa che il suo destino, a differenza di Falstaff, è già stato preparato da un pezzo: lo aspetta infatti il trono, dove egli non dovrà fare altro che sedersi, rinnegando con un’alzata di spalle gli amici di gioventù e assumendo, come profetiizzerà l’amico beone, “un’espressione e una coscienza”, cose alle quali il vecchio Falstaff ha fieramente rinunciato da tempo. Hal rappresenta la serietà della vita, sin dall’inizio porta su di sé la gloria e la dignità future, ad un certo punto diventa ansioso di spogliarsi del suo passato e di correre ad occupare il posto che gli è stato riservato. Falstaff è invece la resistenza bohémien ai doveri del mondo, il ghigno beffardo contro la morte (“cui non vale la pena andare incontro: aspettiamo che sia lei a cercarci”), il trionfo dell’immaginario, la consapevolezza amara e struggente di essere fuori dalla Storia.

Girato da maestro, con uno straordinario uso del grandangolo e stupefacenti riprese dal basso tali da rendere gigantesca la figura del protagonista, il film magnificava il talento visionario e barocco di Welles che, autoesiliatosi da Hollywood, viveva in Europa e riusciva a realizzare film solo grazie ai soldi racimolati con interpretazioni in film di terz’ordine e in virtù del supporto di alcuni ammiratori europei. Il successo del film fu comunque talmente scarso che, come ricorda Joseph McBride nella sua biografia sul grande cineasta, poco dopo l’uscita del film il vecchio Orson ricevette un telegramma da Charlton Heston, nel quale il protagonista di Ben-Hur gli comunicava di stare pensando ad un film su Falstaff e che Welles ne sarebbe stato l’interprete ideale…

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