Virgilio o la terra del tramonto

di Andrea Corona

«Enea soffriva i miei mali. Io e lui, gettai per il mare del Nulla, uno a fondare l’idea dell’Eterno, l’altro a plasmare l’illusione dell’Infinito.»

VIRGILIO o la terra del tramonto, romanzo storico del napoletano Stefano Cortese (Milena Servizi Editoriali, 276 pp., 15 euro), è certamente portatore di una riflessione sul Nulla. Ma si badi: non si tratta, qui, della veicolazione di un messaggio nichilista, né dell’assunzione a fondamento di un nihil negativum; al contrario: l’ombra del Nulla, la sua presenza, anzi, assume una pregnanza tale da sottendere una tematizzazione implicita, e chiarire il fatto che siamo in presenza, quanto mai, di un’opera sul pensiero tragico. E, del resto, come Enea non assisterà mai ai fasti di Roma, pur essendo l’artefice della fondazione dell’Urbe, così Virgilio il Mantovano, o “Il Mago”, come sarà chiamato dagli abitanti di Napoli per l’incanto sprigionato dai suoi versi, non vedrà in vita la pubblicazione dell’opera che pur gli avrebbe donato l’eternità. Un destino beffardo, verrebbe da pensare, se non fosse che Cortese, attraverso le pagine – toccanti ed evocative – che ripercorrono l’amicizia tra Virgilio e Cornelio Gallo, non manca di rilevare come lo scacco del tempo possa essere ancor più crudele nel condannare tanti antichi poeti all’oblio della damnatio memoriae (le opere di Gallo, di fatto, sono andate perdute o distrutte nella quasi totalità).

Ed è la stessa cornice narrativa a presagire tutto ciò. Nel prologo del romanzo, infatti, il lettore si troverà inaspettatamente a seguire una vicenda avente luogo alla metà del dodicesimo secolo, allorquando un poeta di corte e segretario dell’ultimo duca di Napoli sarà costretto, all’alba della dominazione normanna, ad assistere alla profanazione delle ceneri di Virgilio. Ecco, dunque, il presagio di cui si diceva: la dispersione delle ceneri, ritenute venerabili dal popolo partenopeo, divengono metafora del tramonto del Ducato di Napoli, e con esso dell’obnubilamento della vera Storia Umana: la biografia interiore, quella che si sottrae alla memoria e che è di per se stessa inenarrabile, così come la vera storiografia, quella scritta dalle esperienze più intime (e si ricordi che “intimo” deriva dal superlativo del latino “interior”) ancorché private.

È un Virgilio a tratti leopardiano, oseremmo perciò dire, quello dipinto da Stefano Cortese. Sensibilmente scalfito dagli accadimenti del suo tempo (dall’assassinio di Giulio Cesare alla battaglia di Filippi, con il conseguente esproprio di possedimenti mantovani famigliari, forzatamente consegnati ai veterani di Ottaviano), di salute cagionevole e di temperamento insicuro, segnato da un difetto di pronuncia che lo costringerà ad abbandonare le lezioni di eloquenza e oratoria alla scuola del maestro Epidio, e quindi la carriera di avvocato; eppure animato da una forza e un vigore di spirito non comune, e caratterizzato da uno sguardo lungimirante verso l’infinito.

«Virgilio tornò al papiro. Il calamo non si fermava, continuava a cesellare il foglio come fosse un anello d’oro.»

Quasi mosso da un debito morale nei confronti di questo Mantovano che elesse Napoli a patria d’elezione, Stefano Cortese è autore di una narrazione accorata, sebbene puntuale, in cui lo stile romanzesco e fluente (forte è l’influenza del romanzo storico di Sebastiano Vassalli, ricordato in una delle epigrafi d’apertura) cede a tratti il passo a una cadenza ritmica che ricorda per l’appunto la prosa cadenzata dell’oratoria, quando non quella del poema in prosa o persino la forma scrittoria del verso libero.

Il volume, dettaglio non da poco, è corredato dalle tavole del maestro Andrea Jori, grafico, pittore e scultore. Mantovano, come lo fu il Nostro, Jori offre un commento visivo alle pagine di Cortese, per un connubio che rievoca gli incunaboli e le miniature medievali. Una narrazione nella narrazione, dunque, quella di Jori, che va dall’incontro di Virgilio con Mecenate, al dialogo del “Mago” con il padre Stimicone, fino alla sublimazione conclusiva, che mostra un Virgilio angelicato che, sopravvissuto all’oblio e alla Morte, ancora verga il suo papiro.

 

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