Conversazioni in nero – intervista a tutto weird

In occasione della recente uscita del saggio Com’era weird la mia valle (Milena edizioni, maggio 2018), Rivista Milena propone un intervista a cura di Stefano Cortese ai due autori Fabio Lastrucci e Vincenzo Barone Lumaga. Il saggio sul weird, originato come una costola/ampliamento della rubrica Bianco su nero, viene presentato attraverso alcune calzanti domande che fotografano i tratti salienti di un genere letterario trasversale e sempre ricco d’interesse per i lettori contemporanei.

Che cosa si intende con weird e new weird?

Vincenzo Barone Lumaga:
Il weird è un genere che nel tempo ha molto ampliato il suo ventaglio di espressioni stilistiche e tipologie di narrazione, passando dai capisaldi della vecchia scuola che sono in diretta correlazione con la letteratura gotica, attraversando le varie stagioni della letteratura horror. Da quelle più tradizionali a movimenti di rottura come lo splatter punk, alla fase attuale in cui a narrazioni che rimandano al gusto per la narrativa gotica e romantica si affiancano storie che si muovono sul filo della commistioni tra generi, dalla fantascienza all’urban fantasy, sempre però con una attitudine perturbante e la presenza di elementi narrativi che esulano dal racconto di taglio realistico per aprirsi a dimensioni ignote. Il cosiddetto new weird si può definire come una narrazione che tende a oltrepassare i confini dei singoli generi per focalizzarsi su racconti spesso fortemente allegorici, in cui gli elementi fantastici hanno una valenza simbolica rispetto a inquietudini che traggono origine dal malessere concreto e attuale dell’uomo moderno.

Quando hanno iniziato a delinearsi i caratteri peculiari di questo genere?

Vincenzo Barone Lumaga:
Già nella seconda metà dell’Ottocento, con la lezione di E. A. Poe e altri, dal  romanzo Frankenstein di Mary Shelley (che è anche uno dei primi a introdurre negli stilemi e nel contesto della narrazione gotica un elemento prettamente fantascientifico come la creazione di un uomo artificiale, pur mutuando da antiche suggestioni legate alla scienza alchemica), ma anche la ghost story britannica, Dracula di Bram Stoker. Nel Novecento, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, il racconto perturbante attraverserà profondi mutamenti spogliandosi non solo degli stilemi della letteratura gotica ma anche adeguando le sue tematiche e ossessioni di fondo a quelle che sono le angosce di una società che attraversa continui mutamenti e traumi come quella occidentale del periodo. Nel tempo, come si diceva prima, i confini identificativi del genere weird tendono a divenire molto elastici, sempre però restando nell’ambito di una narrazione che tende a perturbare o esplicitamente spaventare il lettore, e dare una lettura e visione della realtà in cui non tutto è spiegabile secondo le regole della scienza materialistica, arrivando in taluni autori anche recenti a esprimersi con storie dall’impronta metafisica.

Il concetto antropologico dell’orrore pensate sia nato come strumento catartico e di delucidazione del reale?

Fabio Lastrucci:
Tirando in ballo lo stra-citato Lovecraft, possiamo ricordare la sua definizione della paura vista come il più antico dei sentimenti umani. Essendo un emozione legata all’istinto di sopravvivenza diventa evidente che la propria rappresentazione possa avere avuto una funzione “didattica” nelle prime arcaiche forme di racconto, illustrando i pericoli che ci minacciano così da potercene difendere meglio. Diverso è un possibile discorso che riguardi l’orrore, sentimento più complesso e ambiguo in cui trovano posto pulsioni opposte di repulsione dell’ignoto e alienazione del senso di realtà, ma anche di forte attrattiva, come la vertigine che si prova in prossimità di un baratro. Di certo, tra tutte le sue espressioni, quella che troviamo più inquietante ci fa da specchio sui lati oscuri del nostro stesso animo, questo spiegherebbe il successo di pubblico cresciuto su figure negative come i serial killer. Trovare simmetria tra gli istinti meno ammissibili dell’inconscio e le loro sfrenata attuazione espressa dal mostro di turno è una scoperta difficile da digerire, anche se rafforza nel contempo il sollievo di poterla constatare dalla parte “sana” della barricata.

Quale genere letterario, l’orrore nasce in età vittoriana, soprattutto in contrapposizione ideologica all’allora nascente industrializzazione e conseguente urbanizzazione. Dunque, tale genere germina come una vera e propria critica sociale: l’uomo che osserva e condanna l’alienante illusione del progresso. Com’è possibile, dunque, che tale genere sia stato in seguito relegato al “basso” della letteratura?

Vincenzo Barone Lumaga:
Credo che ciò sia accaduto principalmente perché si tende spesso a limitare l’analisi di questo tipo di narrativa ai meri aspetti stilistici e soffermarsi poco su quelli contenutistici. Ciò forse accade anche perché il weird e l’horror sono generi narrativi che vengono identificati sulla base di un determinato effetto prodotto nel lettore, che è in questo caso l’effetto perturbante, la finalità di creare turbamento, inquietudine, spavento. Ciò accade sulla base del fatto che questo genere ha un suo bagaglio tradizionale di elementi stilistici funzionali a creare tale effetto. Tuttavia, l’effetto perturbante non avviene solo in virtù degli accorgimenti stilistici, ma anche in base al potere perturbante delle tematiche che di volta in volta animano le storie. Limitarsi ad analizzare solo gli aspetti stilistici della narrativa weird significa rinchiuderla nel recinto della letteratura manieristica, laddove invece essa ha ancora oggi intatto tutto il suo potenziale di specchio narrativo dell’inquietudine sociale.

Personalmente, sono stato sempre contrario a generalizzare la letteratura. Perché, secondo voi, l’horror vive questo ignobile confine di genere, diventando qualcosa per lettori specializzati, o peggio, “appassionati”, quindi una lettura parcellizzata, a cui, pare, si tenda a negare un’acuta quanto verace capacità di analisi del reale diventando mero intrattenimento?

Fabio Lastrucci:
Al di là degli steccati critici sempre presenti nelle analisi letterarie che privilegiano lo stampo naturalista, l’orrorifico ha in special modo sofferto di una scarsa dignità culturale più di altri generi, venendo spostato tra i ranghi più canonici della letteratura alta anche in casi in cui i suoi caratteri fondanti coincidono, se non addirittura definiscono, i topoi del gotico, vedi i racconti di Poe, di Hawthorne o Maupassant e ancora Henry James e il suo Giro di vite. Una pregiudiziale di questo tipo ha mantenuto a lungo anche autori come Dino Buzzati in un area di minore considerazione, in quanto espressione di un fantastico lontano sia dal mainstream più tradizionale che dalle sue avanguardie sperimentali. Ma il tratto che accomuna l’opera buzzatiana alla letteratura dell’orrore è la capacità di affrontare il grande rimosso della società, il tabù per eccellenza, ossia la Morte, argomento che permea molte sue storie in chiave esistenziale, così come in Stephen King assume la funzione di indispensabile motore occulto in un conflitto tra forze cosmiche opposte. L’argomento che sottende questa letteratura – osceno per eccellenza nella propria accezione latina di “malaugurio”- viene quindi depotenziato nei propri contenuti andandone a rilevare l’aspetto spettacolare e vuoto di circo massimo o di Grand Guignol, in cui alla pari della pornografia perde ogni valenza significativa e, soprattutto, eversiva.

La letteratura horror è, purtroppo e per fortuna, fortemente influenzata, almeno oggi, dal cinema. Questo rapporto quanto influisce sulla resa del genere?

Fabio Lastrucci:
La potenza visiva delle produzioni cinematografiche ha, ormai da tempo, permeato l’immaginario proponendo dei cliché che vengono associati alla letteratura, con effetti particolarmente deleteri nel Fantasy, spesso svuotato di magia e ridotto dagli autori più acerbi a una cattiva imitazione di effetti omologati dalla computer graphic. Se si pensi invece a una filiazione più nobile, intesa come svecchiamento dei modelli tradizionali, in funzione di un linguaggio più immediato che utilizzi un forte impianto visuale, allora ci troviamo nel solco della rivoluzione Splatter punk, il movimento nato intorno ad autori americani come John Skipp e Craig Spector.
Col suo forte impatto sensoriale, il medium cinematografico, si presta bene a imporre i propri schemi a una narrativa che cerchi un rapporto viscerale col lettore, mutuandone la potenza visionaria in un piano comune di comunicazione. Non è un caso che celebri autori horror come Clive Barker, impregnato di cultura d’immagine in quanto anche pittore e fumettista (come sceneggiatore) siano passati a esperienze di regia dimostrando l’osmosi esistente tra il mezzo letterario e quello cinematografico. Analogamente, però si è assistito negli ultimi anni anche a un fenomeno opposto rilevabile nelle migliori produzioni di fiction televisive horror, in questo caso la dimensione dilatata di queste storie a episodi di lunga durata, ha consentito agli autori un impaginato diverso, debitore dei propri referenti romanzeschi dei quali restituisce una narrazione più lenta e profonda, com’è il caso di produzioni d’eccellenza come Penny Dreadful o la recente L’alienista.
La dialettica tra i linguaggi resta quindi viva e si muove in entrambe le direzioni, in un gioco di contaminazione continua che nel coraggio di ampliare i propri confini trova nuova linfa creativa e nuovi territori di espressione.

 

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