“Franco, tu sei Accattone! Loro sono gli accattoni e non lo sanno”

“Tu sei Accattone!” – più rassicurante – “Tu sei Accattone”. Così Carmelo Bene si rivolge a Franco Citti durante un Maurizio Costanzo Show, nella sua celebre versione dell’Uno contro tutti. Interrogato da Citti, che gli confessa pubblicamente di non aver mai creduto all’Italia e ad altre figure retoriche della morale civile, Carmelo Bene coglie il senso del “sono uno senza io neanche io” dell’attore romano e lascia intendere la considerazione che serba all’autenticità di Citti, a dispetto dell’abitudine ai più gretti e ipocriti artifici di chi invece di quella morale si serve ogni giorno. “Loro sono gli accattoni e non lo sanno”.

Il dialogo tra Franco Citti e Carmelo Bene prosegue, andandosi poco a poco a separare, a isolare, coi i due interlocutori quasi appartati, volutamente alieni, dal resto della platea. Allora Citti chiede a Carmelo Bene, “Se io e te fossimo i primi a non esserci, quante prime file porteremmo con noi?” e poi ancora, “Io voglio seguirti perché per me sei un genio. Voglio essere come te. Io sono sicuro che verranno tutti con noi.”

Mentre Carmelo Bene cerca di spiegare a Citti come vorrebbe questa terra, “un deserto senza limiti, dove nessuno cerchi fratellanze”, “Accattone” lo incalza dicendogli “io ti ho chiesto una via di speranza insieme a te” e domandandogli se egli preferisca rimanere in due o che li seguano anche gli altri. A quel punto Bene ribadisce l’idea secondo cui ognuno è irripetibile e come tale deve essere percepito dall’altro, e come tale deve sapersi, oltre ogni genere di compagnia o di solitudine, oltre ogni autorità dell’altro, nella perdita totale di ogni comando. Lo svanimento di qualsivoglia sovrastruttura. Ristabilita una sintonia che, in fin dei conti, i due non hanno mai perduto, Franco Citti domanda a Carmelo Bene se egli pensa che quelli che potrebbero seguirli siano tutti falsi. E Bene ammette che essi, questi tutti, sono effettivamente tali, falsi e incapaci di identificarsi come sono. “Si vergognano a dire che non sono”.

Che Franco Citti sia uno dei simboli del cinema – per il futuro sarebbe giusto se lo diventasse ancora di più – è nelle istantanee delle sue interpretazioni, nella posa serena accanto ad Anna Magnani mentre l’attrice romana accarezza Ettore Garofolo e Pier Pasolini Pasolini durante le riprese di Mamma Roma, nello star seduto, ancora adesso, al tavolo coi suoi pari, nei dialoghi dispari dei paesaggi microscopici che con essi ha popolato per riflettere la purezza sgradita, la spontaneità che fa vergognare chi vorrebbe tradursi in altra maniera. Franco Citti ha incarnato l’attore che non ha bisogno di essere attore, nato per dare all’arte il suo genere di saggezza, quella che per Cioran dovrebbe obbligare a sostenere tutte le tesi contemporaneamente, in un eclettismo del sorriso e della distruzione.

E il dialogo prosegue. “So sicuro che tu non avrai nemmeno la macchina come me. Andremo a piedi”.

“Stai tranquillo perché non andremo. Non si porrà nemmeno più di andare”.

Allora sì, che un uomo può dire Voglio morì come i faraoni, co tutto l’oro addosso, perché dotato di quello sguardo diffidente, che ha qualcosa dietro gli occhi, i quali hanno dovuto destarsi da una grande forma di abbandono diffusa in quei deserti dove ci sono “quelli che rubano, ma sono innocenti”. Se vi capita di andare su Ponte Sant’Angelo a Roma, a guardare il cielo della Città papalina, dove Accattone s’è buttato nel Tevere perché, come lo stesso Franco Citti ha spiegato una volta in un’intervista del 1985, se un ragazzo del sottoproletariato muore in borgata, non fa notizia, ma se invece muore, “implorando la sua morte”, nella Roma papalina, la città si accorge di lui, se vi fermate a guardare Castel Sant’Angelo, nelle sere di Roma, ricordatevi che dall’altra parte la borgata, anche intesa come idea, continua ad essere popolata da chi sa che soltanto scegliendo di finire sotto gli occhi di tutti, potrà essere creduto dagli occhi di tutti.

L’umanità di una figura come Franco Citti non è soltanto nell’aver adempiuto al compito di dar volto e voce a uno dei personaggi più significativi del cinema di Pasolini, ma di essersi contemplato come tale, in vita, col perpetuo dubbio se essa sia una soluzione o una condanna alla solitudine. Così, prima di rubare la catenina al figlioletto, Accattone: “Ma possibile che non m’ariconosci mai! Eppure so tu padre”.

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