Scapezzo, il Marziano dello spettacolo

di Fabrizio Natalini

Volevate la poesia? Eravate venuti per la battuta facile? Ma prima di arrivare alla poesia bisogna distruggere l’idea di poesia e prima di arrivare alla battuta facile bisogna distruggere tutta la merda della televisione.

Scrivere di Nicola Vicidomini è semplice: Nicola è un giovin signore napoletano, di Tramonti, una splendida località della Costiera Amalfitana, elegante (basta vedere il panama e i Ray-Ban che indossa nella foto del profilo FB), decisamente colto, con cui è molto gradevole parlare di cultura e di cinema italiano, magari al tavolino di un bar che mostra tutti i segni del suo tempo, polveroso e mal invecchiato – come, ora, è tutta la Capitale, purtroppo. Così come, sotto un caldo sole primaverile romano, mi è capitato il giorno dopo aver visto un suo spettacolo. È lì che è nata la nostra amicizia, andata avanti attraverso diversi incontri, io che leggo le sue cose , lui che legge le mie.

Un’amicizia romana, come tante, ma un’amicizia preziosa. Una bella testa.

Non ho idea delle sue idee politiche: penso che sia di sinistra, inteso come pensiero critico, di certo è lucido e disperato del nulla odierno, di certo è un’ottima compagnia, con cui si possono passare ore, quasi sognando di essere a Piazza del Popolo – da Canova o da Rosati – circa cinquant’anni fa. La cosa che più apprezzo di lui è il suo foulard, lo vedo e mi ritrovo fra i Leoni al sole di Positano, fra Vittorio Caprioli e Raffaele La Capria. Mentre parliamo, le ragazze che passano sembrano Anita Ekberg e Anouk Aimée, scompaiono le mille automobili e motorini che ingorgano la città, riappaiono le care Seicento di una volta… un proustiano effetto madeleine, che nel terzo millennio provo ben di rado.

Insomma è una persona che mi piace e di cui mi è facile e felice scrivere.

Ma con Scapezzo ho molti problemi. Scapezzo è il suo spettacolo, o forse il suo personaggio senza nome. È una maschera tragica in cui Nicola riversa tutto ciò che ho scritto su di lui, ma trasformandolo in un canto disperato, con cui racconta al suo pubblico – ora con foga romantica, ora con stralunata mancanza – il fallimento che siamo e che è la natura. Per Vicidomini la natura è caos insensato e senza confini. Contiene tutto e niente. L’uomo ha volontariamente attribuito un senso alle cose, individuando nomi e strutture, codificando l’incodificabile, codificando il mondo. Nel vedere un suo spettacolo il pubblico, che lo adora, scopre un grande innovatore del linguaggio umoristico, e lui preferisce definirsi un umorista più che un comico, nonostante una “comicità fisica” che lo accomuna al suo amico Antonio Rezza.

Quando era un personaggio semisconosciuto, oltre dieci anni fa, Cochi Ponzoni – lo storico compagno di Renato Pozzetto – nell’affermare “Vicidomini svolge in modo sottile e intelligente il tema della parola libera e della libera, ma motivata, associazione di idee, attraverso simbolismi che riguardano la nostra società. Forse il pubblico al quale si rivolge rimarrà, a volte, perplesso, come capitava a me e a Renato, quando molti anni fa snocciolavamo i nostri apparenti nonsense”, lo collocava all’interno di una ristretta cerchia di autori-interpreti, che hanno fatto dell’épater le bourgeois la misura de loro stile.

Le sue performance si basano sulla reiterazione dell’assurdo e sul perpetuo scavalcamento del limite, quasi una sfida continua: i suoi spettacoli sono tutti giocati su alcuni tormentoni, come ad esempio il mantra: «Armando George-Armando George-Armando George».

Scapezzo – chiamiamolo così per convenzione – usa le sue cantilene ossessive per collegare stralunati brandelli di testo. A un primo ascolto paiono frasi casuali, singulti episodici, borborigmi gratuiti, ma, in seconda lettura, si scoprono essere felici ammiccamenti – a volte sarcastici, a volte beffardi – alla più scottante attualità, al mondo che ci circonda, alla nostra – triste – vita, oggi.

Tutte cose eccellenti e i suoi ragionamenti ribadiscono il valore del suo progetto e del suo lavoro.

Allora perché non trovo le parole per descriverlo come vorrei? Ma perché Scapezzo è un fantasma sfuggente, impossibile a descrivere, le parole non possono restituire l’effetto della sua mimica, il ritmo che la sua presenza scenica dà all’azione. Al di fuori delle sue ambizioni, anzi, oltre le sue ambizioni ideologiche, Nicola ha dato vita a un ircocervo, un mostro affabulante e vomitante che appare sul palcoscenico «inguardabile: i capelli scompigliati, il giubbino di lana marrone aperto, petto e pancia nudi, ciabatte in pelle e calzini. Pantalone marrone sgualcito. Porta con sé tre buste piene di roba. Ha con sé il megafono che dice: “Armand’ Giorg’”. Appeso al collo, un cartello malridotto con scritto “Messaggio Promoziunale”. Appare stralunato. Cammina strisciando i passi [1]». Questo barbone alienato si muove fra voci esterne, che parlano un improbabile “ciovile[2]” tecnologico:

«(BUIO) Chi vi parla è Cinzia, segretaria general. Buonasero. Lo spettaculo sta per iniziare. Stutatevi tutti i cellulari, non date fastidio al vicino di pultrona, non fate mane muorte ‘i signurine, non fate bisogni tra una sedia e l’altra. Non rubate, non dite falsa testimunianza. Conto fino a tre: 1, 2, 3. Si può iniziare. Questo è l’unico spettaculo della storia della demenza, che inizia con un vuoto scenico di 35 minuti (LUCE 20 secondi poi BUIO) Ve piace? Volevamo fare la cosa più cuncettuale. Dove il cuncetto simbuleggia il cuncetto e il vuoto scenico simbuleggia il vuoto scenico. Ecco a voi, il vuoto scenico secondo atto. Sono 235 atti di vuoto scenico. Vai. (LUCE)[3]».

Bastano queste poche righe per comprendere lo straniamento che prova lo spettatore nel vedere questa assurda marionetta primitiva – l’uomo primigenio al grado Zero – a contrasto con questa sorta di assurdo grammelot tecnologico, reso ancora più falso e lacerante dalla presenza del dialetto, infarcito d’inattesi calembour, di scioccanti colpi di coda.

E lo spettacolo va avanti, e risuonano le passioni di questo “cattivo” selvaggio, a cui piacciono le “pulacche” e le “viecchie” facultose, come: «Cognome: Gatti. Nome: Aragna. Età: nuvantacinque. Altezza: cinquantacinque. Capelli: no. Occhi: si. Pelo: ramato. Stato civile: viecchia. Segni particolari: parrucca e va tutta sciancata[4]» a cui dedica una stravagante canzone d’amore:

Serenata a lei!

Va al pianoforte, suona e canta.

Mi piacciono le viecchie / che cosa posso fare / Mi piacciono/ Mi piacciono/ Mi piacciono le viecchie / so’ un poco areppecchiate ma/ Mi piacciono (verso) / Mi piacciono (verso)

Addorano di cipria, / In faccia c’hanno bianca, / in cuollo c’hanno volpe, / mi accattano la varca, / mi pagano gli affitti / come se fose niente e / nient’è.

Mi piacciono le viecchie / camminano un pò male / mi piacciono (verso / mi piacciono (verso)

Mi piacciono le viecchie / non stanno tanto beno ma / mi piacciono (verso) / mi piacciono (verso)

Mi portano un pò al mare / la casa a Pusitano / le creme sulla mano / poi vedoono le amiche/ sono viecchie di danari /come se fosse niente e / nient’è

Mi piacciono le viecchie/ suspirano di giorno / mi piacciono (verso) / mi piacciono (verso) / mi piacciono (verso)

Mi piacciono le viecchie /si, stanno per murire ma / mi piacciono (verso)

/ mi piacciono (verso)

Contesse un poco dolci / di notte poi non penso / di juorno sto più fresco / m’invento commozioni / e vendo questo amore / come se fosse niente e / nitent’è .

Ma dopo questo momento “tenerezza” comincia una serie di “versacci” e riemerge lo sgradevole cercopiteco di poco prima… queste continue montagne russe portano gli spettatori – fra risate e imbarazzi collettivi – a seguire la fabula del narratore, che li tiene per la coda e li affascina, nel suo affabulante delirio narrativo.

Il suo pubblico partecipa all’happening con rara complicità, confuso e felice il questa rapidissima successione di reali incongruenze, più vere del vero nella loro illogica e scoppiettante successione, partecipe convinto di una sorta di autodafé dell’intelligenza collettiva, in cui Vicidomini è, a un tempo, sia boia che condannato, un po’ come gli spettatori, i testimoni di questo rito collettivo. È forse questo l’unicum dei suoi spettacoli, che lo rendono esclusivo nel suo genere: disprezzare o prendere le distanze dall’irriverente e smodato protagonista è impossibile: se hai acquistato il biglietto, se sei in platea anche tu hai le tue colpe, sei uguale a lui e lo sai… e forse anche a te «piacciono le viecchie» e anche tu, come lui, puoi solo, retoricamente, chiederti: «Che cosa posso fare?».

Un fascino ambiguo e mortifero, che esalta il nulla dilagante che tutto circonda e tutti ci circonda, insomma.

Non so quanto Nicola gradirà questo suo ritratto, penso che ancor meno gli piacerà quanto scrivo ora. Ma non è colpa né mia, né sua.

Se Scapezzo è straordinario in teatro, fra una folla di complici, il suo effetto sul piccolo schermo o su youtube – dove si trova molto della sua opera – è ancor più dirompente. Vederlo nelle diverse trasmissioni – tutte – aggiunge un particolare sapore, che ci è dato dai volti dei personaggi televisivi che lo affiancano, che cercano di “gestirlo”, di essere alla sua altezza (o bassezza, se preferite). I volti telegenici dei cabarettisti video rimangono sempre basiti, fingono di “giocare” con lui, ma in realtà lo temono, ai loro occhi pare come il marziano a Roma di Flaiano, lo sopportano, ma la smorfia di disgusto – specie delle rare donne che hanno il coraggio di avvicinarlo, magari blandendolo leziose e sorridente, è indimenticabile, piacere puro.

E allora, a straniamento si aggiunge straniamento, e io, nel monitor, rivedo il mio brillante amico intellettuale, quello che parla forbito, che dottamente argomenta, seppur travestito da “Scapezzo”.

E mi piace, molto.

1 Copione Scapezzo.

2 Ciovile, ovvero: tentativo di parlare fine, cfr. G. G: Belli, Er parlà ciovìle de piú, Er servitor de piazza ciovile.

3 Copione Scapezzo.

4 Copione Scapezzo.

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