Su Gaza, per Gaza. Contro la complicità di stampa nazionale e internazionale

Al popolo palestinese e ai giornalisti inviati morti in guerra

 

Se le ceneri potessero ricostituirsi in carne e ossa, se dagli ossari e da quelle macabre suppellettili potessero tornare gli internati che invano sognarono qualcosa che mai fu loro consegnato o restituito, se i vagoni potessero procedere in direzione inversa anziché dirigersi verso le camere a gas e i forni crematori, quale parola spetterebbe a tutto quello che sta succedendo a Gaza, e che è sottile e brutale riproduzione delle azioni che hanno fatto di noi la civiltà figlia degli stermini e dei lager?

Sopra i tavoli delle contrattazioni ci sono ancora i capelli, i denti, gli occhiali e ogni altro cumulo di quei precipitati che hanno testimoniato l’orrore pure quando ci si credeva erroneamente che fosse finito. Non si vedono, ma ci sono. Dagli eccidi sistematici a quelli indotti, dalla terra e dal mare. Non è cambiato nulla. L’orrore si è soltanto evoluto, sviluppato, raffinato. Come ogni altra voce del progresso.

Intorno a quello che sta accadendo a Gaza, e non solo, non si può fare a meno di osservare sgomenti il silenzio e l’alterazione dei fatti da parte di una componente molto ampia della stampa italiana e internazionale, tanto da poter parlare di un vero e proprio collaborazionismo. Il fenomeno è stato ben riassunto da Raffaele Oriani, dimissionario da La Repubblica, che ha parlato di “scorta mediatica”, riferendosi a coloro che si sono resi complici, a suo avviso, del massacro che si sta perpetrando in quella parte del mondo. Non è possibile comprendere fino in fondo e conoscere le ragioni per cui un numero imprecisato di innocenti viene quotidianamente sottoposto alla barbarie. Senza tregua, senza regole, senza eccezioni. Il massacro finalizzato al massacro.

Un grande capo di imputazione dovrebbe pendere, oltre che sopra coloro che sono complici dichiarati di questi eventi (a partire dagli Stati e dal loro “doppiopesismo” sugli altri conflitti in corso) anche e soprattutto contro un certo giornalismo che, con la sua acquiescenza, sta venendo meno ai suoi doveri morali e intellettuali. Invece tutto gode di un non luogo a procedere con relativa impunità, fino a un soggiogo interiore di natura spirituale collettiva e individuale.

Rivista Milena, sia pur attraverso un atto puramente simbolico, denuncia l’atteggiamento di quella stampa nazionale e internazionale che si sta rivelando responsabile del silenzio e della narrazione distorta di avvenimenti così gravi e di azioni così imperdonabili. Per quanto l’intenzione e l’esecuzione del simbolo godano di una facilitazione che è essa stessa limite alla sua efficacia, non si può fare a meno di osservare che qualcosa di più alto, di più irrecuperabile stia finendo ogni giorno dentro le camere a gas e i forni crematori: l’onestà intellettuale, il dovere di cronaca, lo spirito di denuncia, il racconto dei fatti nella loro verità ed essenzialità. In una parola, ciò che distingue il mondo libero da quello asservito.

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