La solitudine nell’altromondo di Garcia Marquez

Nemmeno la morte licenzia certe intelligenze. Semmai le paralizza, raccogliendo ogni istantanea in un unico fermo immagine, scolpito, netto, come lei. La morte non cancella il mito, ma lo ritrae, senza stile, senza correnti, senza scuole di pensiero pittorico, senza nessuna regola dell’immagine se non quella che il suo ritratto raffigura l’oggetto della sua attenzione così com’è, senza che nemmeno gli dèi possano contestarne la perfezione. L’unico effetto che la morte produce è dentro il suo bersaglio, è nell’ospite che viene raggiunto dalla sua visita e che niente potrà vedere delle celebrazioni dei suoi affetti, niente potrà osservare delle manifestazioni dolorose di chi spetta il faticoso compito di elaborare il lutto.

Gabriel Garcia Marquez ha rappresentato la sua fine sin dai tempi non sospetti. Potrà sembrare assurdo, ma l’uomo votato al pensiero, il vero pensiero, sin dall’infanzia porta con sè il traguardo mortale, nell’ignaro frangente in cui la notizia di una scomparsa gli viene risparmiata, oppure quando stringe la mano di un adulto quando è arrivato il momento di avere cognizione del risultato dell’agguato mortale, passando per la sperimentazione adulta della perdita, talvolta benignamente corrotta dai conforti umani, fino alla serena attesa che in vecchiaia la saggezza non nega nemmeno a se stessi. Come ogni grande scrittore, Gabriel Garcia Marquez ha saputo vivere la sua letteratura attraverso l’unica presenza che apre le porte alle ispezioni delle angosce. La solitudine. Non neghiamoci questa verità, almeno questa. Non c’è compagnia che possa essere utile in una qualche maniera quando l’uomo pensa alla sua fine. Si è soli. Ci si catapulta in un abisso dove passiamo soltanto noi stessi. È un condotto che ha le nostre misure.

Così, adesso che Gabriel Garcia Marquez non c’è più, nel formale adempimento di considerazioni che solo la scomparsa autorizza a formulare, si può ripensare a Foglie morte, a La mala ora, a Nessuno scrive al colonnello, a Il generale e il suo labirinto, a Cent’anni di solitudine, a Memoria delle mie puttane tristi, schizzando in lungo e in largo nell’esperienza letteraria dello scrittore colombiano. E ripensando, accorgersi che la parola solitudine è stata il verbo del suo pensiero votato a una dimensione che non fosse il rifugio nel solitario, ma l’ammissione spregiudicata della condizione umana.

Si può vivere a mille, concedendosi ogni cosa dia la sensazione del profondo e del vissuto, si può sperimentare ogni limite del possibile, conoscere migliaia di persone, contare sull’affetto di un popolo, stimarsi all’estremo, ma il ritorno a casa prevede sempre una chiacchierata con la solitudine.

Gabriel Garcia Marquez ha verbalizzato l’angoscia in forma di ogni cosa utile a nasconderla dentro il dettaglio popolare, affinché la necessità di alleviarla potesse soggiornare nei dolori degli altri, nelle vergogne e nelle violazioni che non fossero le sue, nel suo leggendario e mitico altrove. Quale carico esistenziale si portano dentro coloro che non risparmiano nessuna esplorazione alla loro sensibilità. Il generale che riconosce il coraggio al suo maggiordomo Josè Palacios, l’avvicinamento alla morte compiuto a ritroso da parte del vecchio che, senza toccarla, decide di giacere affianco all’adolescente vergine, il colonnello che si sofferma a sentire la malattia crescere dentro di lui, sono i voti poetici di Garcia Marquez, che, non dimentichiamolo, come una volta scrisse attraverso il titolo di una sua opera letteraria, non è venuto a far discorsi.

Persuada pure l’idea che il grande scrittore, quando scrive, non pensa a chi parlerà, ma a cosa dirà. Ha ragione Mafalda, la protagonista del fumetto di Quino, “chiudi gli occhi e il mondo scompare”. Se li chiudo, tutto scompare, ma compare l’immaginario dei racconti che hanno agito sulla mia vita. Il mondo scompare, ma non Garcia Marquez. È l’altromondo dove finiscono le storie di quelli che hanno saputo esplorarlo e raccontarlo in vita.

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