Chi è finito a Trafalgar

Su “Trafalgar”, di Benito Pèrez Galdòs

Edizione La nuova frontiera, Traduzione di Giuseppe Gentile

 

“Qualche anno prima del 1805, su una spiaggia di Cadice, un gruppo di monelli gioca a far la guerra” scrive Giuseppe Gentile nella sua nota in appendice alla traduzione di Trafalgar, romanzo di Benito Pérez Galdòs.

L’inizio del racconto della battaglia di Trafalgar potrebbe immaginare pure un terrazzino rivolto verso il mare, di una casa abitata da un vecchio marinaio, di quelle che d’estate friggono tra i frazionamenti dell’aria calda, in mezzo alle colline assolate della penisola iberica, consegnando la narrazione a una voce antica, oltre il varco di un passato consegnabile al futuro, reduce dalle soglie oniriche di quel mare che per Herman Melville è “il fantasma dell’inafferrabile senso della vita”.

Un anziano collezionista di modelli di velieri ne sta costruendo uno, in un luogo sconosciuto, magari in una di quelle abitazioni che quei vecchi poeti solitari occupavano per trascorrere le loro estati afose e malinconiche. Il traduttore, nella nota personale, tocca con le mani di un bambino il corpo di una storia ritrovata come si ritrova l’ebbrezza per un improvviso e inatteso incontro amoroso. Quella storia va guardata con gli occhi presi in prestito da quell’uomo anziano, che nella sua casa, in mezzo alla campagna, rende quiete alle tempeste che un giorno lui stesso visse in mezzo al mare. Quell’anziano signore consuma la sua vista tra i pezzi minuscoli del suo piccolo vascello, respirando ancora tra le narici l’odore ostile della colla e della salsedine, e delle lunghe navigazioni che un tempo, chissà, lo videro marinaio forte e impavido. Il mare consuma tutto, pure il coraggio.

Benito Pérez Galdòs ha raccontato l’entusiasmo del giovane Gabriel Araceli, “Gabrielillo”, che s’imbarca col vecchio nostromo Marcial sulla Santìsima Trinidad, assistendo così alla battaglia di Trafalgar, che consegnò all’Inghilterra il dominio sui mari, a discapito dell’armata napoleonica.

Nel Trafalgar di Galdòs avviene un processo che non limita il romanzo al semplice racconto. Il protagonista, Gabrielillo, è un simbolo che vela in maniera del tutto astorica la vicenda. Che sia ambientato nell’Ottocento è la collocazione che lo esige, ma, a ben riflettervi, il cerchio che qui si descrive, attraversa una scala emotiva universale, senza un tempo che limiti le azioni dei protagonisti. Nel Trafalgar c’è l’amore, l’odio e il pentimento. C’è la gloria e la sconfitta, l’entusiasmo e la passione, c’è un’umanità quasi reclusa, meglio ancora esclusa, perché alle illusioni che ogni personaggio si porta dentro, la storia risponde evadendo il soccorso. Anche se si muore, anche se la sconfitta s’impadronisce dei sogni di gloria, il mare benedice tutto. Galdòs firma un quadro d’Ottocento, con una storia dell’Ottocento, con personaggi dell’Ottocento, ma le sue parole fuggono dal secolo, chiamate alle armi di una spiritualità progressiva, che vuole uscire dal suo tempo e fare degli spettri delle guerre sul mare un simbolo salvifico delle atrocità umane. L’epica dello scrittore spagnolo rievoca la nobiltà del conflitto, come i poemi dei secoli addietro e dei guerrieri classici, all’alba di un Novecento – non è un caso che ciò avviene al tramonto della letteratura moderna – che invece sarà il secolo che maledirà il duello e inaugurerà la viltà di una maniera del tutto nuova di muovere guerra.

Il fascino assoluto del Trafalgar è anche la simbolica deposizione di un’arma che cadrà presto in disuso e che questo romanzo storico rinfodera per sempre nel suo poetico licenziamento. Le battaglie allontanano i loro combattenti dalle case e dalle famiglie, ma li riunisce in un supplizio che li misura in un senso dell’umanità che paradossalmente soltanto l’orrore della guerra può rievocare. La preghiera di una generazione sussurra i suoi versi imploranti, in un silenzio subentrante, postumo, che pacifica il mare, non più campo di battaglia, trasportando religiosamente i superstiti di un confronto che sembra allineare tutti, comandanti e sottoposti. Galdòs, pur senza tradirne il sacro mistero, supera pure il limite cristiano, scrivendo di una religiosità umana e del tutto umana. Lega i personaggi grandi e piccoli, marinai e nostromi, comandanti e sovrani. In un’atmosfera commovente, come sotto una croce sanguinante, racconta dei tormenti giovanili di Gabriel, dei legami col suo tempo e con i suoi desideri, con il suo passato e il suo futuro. Gabrielillo è servo e padrone, perché segue fedelmente la sua vita senza mai tradirla, non contraddice il potere che lui riconosce, che in lui non s’impone, ma lo convince facendosi amare, sia pur nella discutibile alleanza della sua Spagna con la Francia napoleonica.

Il protagonista di Trafalgar è un esempio perfetto di cittadino. La politica descritta da Galdòs rievoca l’amore per la terra e per la sua difesa, tipica dell’animus dell’eroe greco. Ma Galdòs, figlio di una letteratura tra fine Ottocento e inizio Novecento, rifiuta della tragedia greca il suo fato nero, il suo affidarsi ai numi ignoti, attraverso il crimine familiare che diventa crimine di Stato. Galdòs narra di un’umanità che vuole la vittoria anche nella sconfitta, che pure nella tragedia nulla perde e nulla pretende.

Chi ha versato il suo sangue in quelle guerre, al dolore e alla disperazione ha sovrapposto la foto sbiadita di una famiglia, di un’innamorata, di un amico, di una casa di campagna, o di un piccolo regno privato, legato sì a quello più grande della sua nazione, ma libero, indipendente, perché figlio della propria azione e della propria fatica. Galdòs scrive intorno a una conversione, rispetto alla diabolica religione predicata dai conflitti del Novecento, secolo in cui il giovane combattente inizia a sognare il ritorno a casa perché deluso dalla miserevole gratuità della violenza sugli indifesi, e non più animato dal sublime sollievo della vittoria. La crudeltà indicibile del “Secolo breve” fa sì che quel sollievo sia anche la sconfitta, purché ci si liberi dall’orrore. Secondo il Trafalgar, Napoleone Bonaparte, alla notizia della sconfitta, affermò “Io non posso essere in ogni luogo”. Aggiungerei un ironico sospiro di sollievo alla giustificazione di Napoleone, confortandomi tra le pagine vive di Galdòs, che ancora navigano tra le onde in fiamme di quella gloriosa battaglia e lo strazio di quei personaggi vissuti con la guerra tra le mani e il verbo bisbigliante della dignità in bocca.

Adesso scorgo ancora il vecchio marinaio che con pazienza costruisce il suo piccolo vascello, mentre i bambini sulla spiaggia giocano a far la guerra, senza privarmi del gusto di pensare che uno di essi, recuperando la spada ai margini della riva, raccolga una tavoletta con su scritto Trafalgar.

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