Quando incontrai Dino Pedriali

28 febbraio 2016, prime ore del mattino. In un appartamento di Salerno, Dino Pedriali si rivolge a Davide Speranza e a me, chiedendoci di illustrargli nei minimi dettagli lo spettacolo dedicato a Pasolini che la sera stessa avremmo mandato in scena a Palazzo Fruscione.

Alcune settimane prima.

“Tu parli poco! Che fai qua da solo?”

Aveva esordito così, cogliendomi in un angolo mentre stavo leggendo non ricordo con precisione cosa. Con Dino Pedriali avevo già parlato a pranzo tempo addietro. Anzi, lo avevo ascoltato quasi senza profferire parola mentre, sedutogli accanto, avevo cercato di non perdermi nessun particolare della sua conversazione con gli altri commensali. Un pranzo lungo, pieno di aneddoti, pieno di Roma e di Pasolini, di descrizioni di luoghi dove sarei tornato qualche anno dopo e di altro che non mi fu totalmente chiaro.

I lavori preparatori alla mostra e alla rassegna che Tempi Moderni aveva organizzato andavano avanti e io con Pedriali mi limitavo soltanto al saluto. La sua storia, la sua esperienza con Pasolini, la sua età e la sua maniera di comportarsi mi suscitavano un qualche genere di soggezione. Tutta la devozione alla storia che per anagrafe e per sorte avevo mancato era sortita al cospetto di un artista che ai miei occhi appariva come un avamposto vivente di una parte di quel mondo che popolava il mio immaginario più intimo.

“Ma tu mi saluti soltanto? Tu parli poco! Che fai qua da solo?”

Da quel momento, iniziammo a discutere di tante cose. Sia con me che con Davide Speranza, col quale stavo lavorando alla preparazione di Per un po’ d’innocenza, Pedriali avviò un dialogo fatto di scambi frequenti, mai soffermandosi su retoriche e luoghi comuni. Nei giorni che precedettero la sera dello spettacolo, trascorremmo con lui un tempo alla rinfusa, fatto di ore e ore dietro le sue macchine fotografiche e i negozi di fotografia che non sempre riuscivano a stargli dietro, le fotografie scattate per strada, le nottate nei locali e un via vai di rimbalzi talvolta apparentemente sconclusionati di aneddoti e osservazioni. La sera prima dello spettacolo, sia Davide che io eravamo preoccupati, perché non eravamo riusciti ancora a convincerci del meccanismo su cui stavamo lavorando da molto tempo. Non erano i testi, né la struttura o qualcos’altro che potesse riguardare aspetti tecnici. Ce lo dicemmo francamente: eravamo noi. Tuttavia, sapevamo che il tempo restante ci sarebbe bastato per metterci a punto. Eravamo preoccupati anche perché Dino Pedriali coi talk precedenti era stato abbastanza severo. Almeno con quelli a cui aveva assistito fino a quel momento. Davide e io eravamo i più giovani all’interno del programma. Anagraficamente, di gran lunga i più giovani.

La sera prima dello spettacolo, Pedriali, dopo averci già trattenuto a lungo per le strade di Salerno insieme a un altro amico, giunti a notte fonda, ci chiese di accompagnarlo nell’appartamento dove alloggiava, perché avremmo dovuto “spiegargli un po’ di cose”. Per noi era tardissimo. Dovevamo revisionare tutto il copione. Il giorno dopo c’era lo spettacolo e avremmo dovuto anche provare. Pedriali fu, però, molto insistente e ci condusse al suo appartamento.

“Adesso spiegatemi per filo e per segno che intenzioni avete domani”.

Il tempo contro, mille preoccupazioni e la soggezione che avevamo per lui non furono di certo utili a tranquillizzarci. Ad ogni modo, con l’aiuto di carta e penna, gli svelammo dettagliatamente tutto quello che avevamo pensato di fare e di dire. Guardò gli appunti sopra quei fogli di carta, poi iniziò a scriverci sopra e a parlarci delle sue, di intenzioni.

“Voi domani sera dovete aiutarmi. Voi sarete al centro di una specie di set fotografico. E io sarò lì tutto il tempo.”

Non aggiunse altro e non tutto ci fu chiaro sin dal primo momento. Conoscendo la sua imprevedibilità, tememmo che la sua presenza avrebbe potuto significare soltanto uno sguardo critico e austero. Con le sue fotografie nelle altre sale del palazzo c’era da aspettarsi ogni genere di reazione. Anche scontenta. Per tutto il periodo della mostra mai fece mistero di trovarsi lì pure per tutelare l’esposizione dei suoi scatti da facili e superficiali fraintendimenti, nonché da avventurose e licenziose interpretazioni e speculazioni. La resistenza dell’autore non si separava da tutto il resto.

Uscimmo dal suo appartamento e rimanemmo per strada tutti e tre per un altro po’ di tempo. Approssimativamente, fino alle tre del mattino. Decisi di non tornare a casa e di andare da Davide per ultimare la revisione dello spettacolo. Il lavoro ci prese fino alla tarda mattinata. La sera c’era il talk e già nel primo pomeriggio avremmo dovuto fare le prove.

La sera dello spettacolo, dopo che Alfonso Amendola, nonostante una febbre improvvisa, non aveva voluto mancare di presentarci, appena spente le luci in sala e ancora con le idee un po’ confuse su quanto Pedriali ci aveva annunciato la notte prima intorno a quello che aveva in mente – più che altro, avevamo vissuto le sue parole tra la paura e la curiosità – ce lo ritrovammo sulla soglia dell’ingresso a fissarci sopra il palchetto. Pochi minuti e iniziò a intrufolarsi tra i leggii e i libri, i supporti per le carte e lo schermo che alle nostre spalle mandava video e immagini. In un attimo, divenne parte del talk. Mentre parlavamo e leggevamo, ci diceva di stare fermi perché doveva fotografarci nelle pose che di tanto in tanto catturavano maggiormente la sua attenzione.

“Statte fermo! Nun te move!”, mi diceva sovrapponendo la sua voce a quella di Davide. “Fermo con la mano sopra il libro. Non la spostare!”, m’intimava mentre per noi era molto più difficile mantenere la concentrazione, dovendoci preoccupare di divincolare il nostro dialogo dalle imprevedibili distrazioni di Pedriali. C’era da destreggiarsi in uno spettacolo dentro lo spettacolo. Nel frattempo, il pubblico, consapevole che tutto quello che stava accadendo non era stato nemmeno lontanamente preparato, ci ascoltava senza perdere d’occhio lui, seguendoci un po’ sorpreso e un po’ divertito da quanto quello stravagante fotografo stava facendo durante il talk.

Quando lo spettacolo finì, alla riaccensione delle luci in sala, Pedriali prese subito la parola per pronunciare un breve discorso di ringraziamento a quello a cui aveva assistito e, ovviamente, anche partecipato. Le parole che usò le ricordo tutte alla perfezione, ma preferisco non riportarle.

Durante lo smontaggio, Dino Pedriali si trattenne con Davide, con me e con alcuni degli spettatori a conversare e a riprendere a fotografarci. Con l’aiuto di altri due amici, con una torcia ci illuminava il volto da distanza ravvicinatissima, rimproverandoci ogni volta che tentavamo di spostarci o anche soltanto di muoverci.

“Fermo così! Questa lacrima è un diamante!”

Urlò a un rivolo sottilissimo che mi scendeva da un occhio a causa della tensione e della stanchezza. Tutto il peso dei timori e delle incertezze che con Davide mi ero portato addosso senza rivelarlo, si congedò rapido e piccolissimo dentro quella lacrima della quale solo uno come Dino Pedriali avrebbe potuto accorgersi.

Pochi giorni dopo, all’indomani della chiusura e dello smontaggio della mostra, mi trattenni per l’ultima volta con Pedriali in una conversazione che ebbe quasi del confidenziale, seduti a terra in una delle sale in cui erano esposte le sue foto. Parlammo ancora di quello che avevamo condiviso, ma senza dilungarci. Ricordo che in quelle settimane non chiacchierammo mai. Parlammo, sì. Sono due cose ben diverse.

Vogliate perdonarmi se, contravvenendo a una specie di norma personale per cui non supero quasi mai la soglia della prestazione, adesso che Dino Pedriali non c’è più, ho scelto di raccontare quell’esperienza. Raramente rievoco cose che mi riguardano personalmente o altre che ho già rappresentato altrove. Non so che fine abbiano fatto le fotografie che Dino Pedriali ci scattò quella sera. Non so nemmeno se le abbia mai sviluppate, non so se per lui fu un’improvvisazione del momento o qualcosa di più. Non so se il rullino sia andato perduto o sia ancora conservato da qualche parte. Dopo la fine di quella mostra e di quella rassegna, non lo incontrai più.

Questo articolo è dedicato a Dino Pedriali e a tutte le persone che si adoperano affinché non prenda il sopravvento quello che Pier Paolo Pasolini definì il “Genocidio”.

Immagine di copertina da officinecreativeitaliane

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