Intervista a Roberto Ritondale: “Al di là di molti riconoscimenti, il premio più bello è sapere che mio padre apprezzava quel che scrivevo da piccolo”

di Davide Speranza

«Quello che io voglio darvi è il coraggio di scrivere. Mettetevi bene in mente questo. Perché all’epoca anch’io ho tremato davanti al foglio bianco e quindi so a quale setaccio deve passare la vostra sensibilità… Da ogni fatto si può trarre un racconto, un’idea». Eduardo esordiva e spiegava così il suo mestiere di scrittore e drammaturgo ai giovani. Il Maestro, in quello che poi sarebbe stato un libriccino edito da Einaudi (Lezioni di teatro), mise a disposizione dei ragazzi la sua esperienza, scoprendo nervi e ossature delicate di un processo creativo sempre diverso da autore ad autore. La sua drammaturgia era una continua cronaca antropologica e sociologica del vivere umano. Ma il senso potente del suo discorso sta tutto in quell’ultima frase: «Da ogni fatto si può trarre un racconto, un’idea».

Essere cronisti del proprio tempo, sia che si scriva drammaturgia, o narrativa, sia che si affronti un’intervista. Scrivere il sociale e le comunità, mischiare fiction con la scrupolosa attenzione al dettaglio quotidiano. Trarne storie trasfigurate e contemporaneamente parlare ai propri coevi. I narratori cambiano prospettiva perché cambia il mondo. In continuazione. Philip K. Dick nei suoi libri parlava di alienazione dell’uomo novecentesco e usava la fantascienza cavalcando le onde della distopia, dell’ucronia, dell’utopia. Enzo Biagi diceva: «Mi interessa il romanzo che scriviamo ogni giorno nel quale, in fondo, ognuno di noi mette la sua virgola». Esperienza e scrittura. Segno, virgola, giornalismo, romanzo che mette in scena pagina su pagina la commedia umana. Ma ha ancora senso, oggi, mettersi a raccontare il mondo e l’uomo? Si può entrare nel processo creativo di un autore? Come cambia la percezione della scrittura e del giornalismo? E come cambia il senso del raccontare? Chi si mette di fronte al foglio bianco, di carta o elettronico, resta forse una specie di eroe solitario, un Don Chisciotte della Mancia pronto a cavalcare la Storia e ad affrontare la verità dell’umano sentire.

C’è ancora chi di questa solitudine ne fa arma di condivisione, collante, scafandro con cui passeggiare sui fondali del mare, in compagnia di voci da far esplodere una volta risalito in superficie. Scrittura intesa come visione di confine tra realtà e immaginazione, per approdare a una consapevolezza sociale. Roberto Ritondale pare appartenere a questa categoria di narratori. A parlare per lui, in fondo, è l’espressione con cui chiarisce il suo percorso di autore e giornalista: Scrittore Ambulante. Una voce mai dall’alto, ma dentro il popolo, in mezzo ai lettori, a braccio con la cosiddetta “gente comune”. Redattore Ansa a Milano, autore di storie che parlano di dittature tecno-orwelliane, stragi di anziani e recupero della memoria, porta le sue storie tra le persone, letteralmente ambulante, anche in contesti dove il disagio è ossigeno. È arrivato a parlare dei suoi romanzi nella case di sconosciuti, nelle residenze sanitarie assistenziali, nelle scuole; cronista di nera e giudiziaria a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta dello scorso secolo in una terra, quella tra Napoli e Salerno, dove la camorra mieteva vittime e incuteva terrore. Ritondale (nel 2022 uscirà il suo nuovo libro) si confessa, apre i cassetti del suo passato e del suo presente. Soprattutto parla di scrittura e di redenzione. Non è forse questo il fine ultimo di un cantastorie? Conservare tiepidi pezzi di terra-uomo per mostrarne le facce di pirandelliana moltiplicazione.

Roberto, da dove nasce l’ossessione della scrittura?

Un desiderio che risale a quando ero bambino. Avrò avuto circa 9 anni. Scrivevo racconti, poesie. Ho scoperto, poi, che mio padre di nascosto prendeva questa riproduzione infantile e la faceva leggere ai suoi parenti e amici. Nonostante abbia ricevuto molti riconoscimenti, il premio più bello è sapere che mio padre apprezzava quel che scrivevo da piccolo. Ricordo che il primo romanzo nacque per dare sfogo alla parte creativa della mia scrittura. Lavoravo per quotidiani come Il Mattino, il Giornale di Napoli, per l’emittente Quarto Canale, e in qualche modo la scrittura creativa aveva un suo sbocco. Invece quando ho iniziato a lavorare per l’Ansa, mi sono trovato spiazzato. Ho dovuto trovare un’altra strada per la mia scrittura. Durante i primi mesi di contratto, ho scritto il romanzo “Anime plastilina” (Edizioni dell’Ippogrifo, ndr). A proposito dell’incipit, è lo stesso di un articolo che fu poi apprezzato al Mattino, l’omicidio di un bigliettaio della Circumvesuviana. Questo romanzo affrontava il problema della criminalità organizzata e la collusione tra camorra e politica.

 


Ha iniziato dalla cronaca?

Ho seguito cronaca nera, giudiziaria, ho avuto anche alcuni problemi. La seguivo non solo per i quotidiani. Su Quarto Canale (emittente televisiva locale fondata a Pagani in provincia di Salerno, ndr) organizzavo delle campagne per invitare le persone a denunciare gli usurari. Nel 1993 spararono 4 colpi di pistola sulla fiancata della mia auto. Gli inquirenti mi dissero che quell’avvertimento poteva essere dovuto alle mie denunce contro gli strozzini.

Scrittura, arte e impegno sociale. Si può?

Ho sempre detto che all’inizio della mia carriera sentivo molto forte l’abbinamento lavoro-impegno civile. Sono contento di averlo fatto nella mia terra e mi rammarico per essermene andato, ma occasioni professionali non c’erano più all’epoca mia e credo purtroppo neanche ora. Era per me un legame indissolubile abbinare l’impegno giornalistico a quello civile. Una terra deve puntare sui suoi figli dotati di qualità e talento, per aumentare le possibilità di riscatto. Poi il tuo talento devi metterlo al servizio degli altri senza sprecarlo.

Che periodo fu quello di fine Novecento, in Italia e Campania?

Turbolento. Era l’epoca in cui si parlava addirittura di criminalità capace di indicare il proprio candidato sindaco. C’era la Tangentopoli nazionale con ricadute su territorio locale. Ho seguito i processi per l’omicidio di Marcello Torre, ho conosciuto Raffaele Cutolo in un processo d’appello a Salerno. Era in una gabbia e cominciammo a parlare. Ero di Pagani, per cui mi prese in simpatia, e avevo lo stesso nome di suo figlio che gli fu ammazzato. Così chiese alla moglie di regalarmi una musicassetta dove da un lato c’era la canzone di Fabrizio De André, “Don Raffaè”, e sull’altro c’era una sua poesia musicata contro la droga. Un personaggio di una lucida follia, carismatico, con quegli occhi spiritati, ma chiaramente con una prospettiva folle sul mondo, per lui era giusto tutto quello che faceva. Aveva costruito uno Stato nello Stato.

Giornalismo ieri e oggi. Cosa cambia?

I riferimenti per la mia generazione erano giornalisti come Miriam Mafai, seconda la quale “il giornalista si fa scarpinando”. Avevamo l’invito di scendere in profondità nel proprio territorio e indagare su quello che accadeva. Anche Salvatore Scarano è stato per me un modello. Era un giornalista televisivo paganese, morto ahimè troppo presto. È stato uno dei miei primi direttori e aveva la capacità di scendere tra la gente e proporre le interviste, così come era solito fare Joe Marrazzo. All’epoca non c’erano i social. Questa è una delle grandi differenze. Era un popolo senza voce. Inoltre, noi siamo mass media, parola latina che indicava la nostra mediazione tra il politico e il suo elettorato, o fra l’artista e i suoi fan. La nostra funzione era una mediazione. Adesso questa funzione è venuta meno. Il politico si rivolge direttamente ai suoi elettori, come l’artista. In qualche modo c’è l’esigenza di ripensarsi come categoria. Uno degli sbocchi che dà senso ancora alla nostra professione è la certificazione della notizia. Il giornalista deve essere in grado di proporre una certificata veridicità della notizia in una epoca di fake news e bufale. Questo è il ruolo che certamente ha l’Ansa.

Dunque la gente dovrebbe distinguere propaganda da informazione?

Il punto è che nel momento in cui loro non hanno più quella mediazione, si inizia a fare propaganda politica. Nel romanzo “1984” di Orwell, c’erano uomini di regime intenzionati a manipolare informazioni e nozioni dei libri di storia. Orwell questa cosa l’ha scritta nel 1948. La propaganda è tipica dei regimi. La prima categoria che viene massacrata è il giornalismo, gli intellettuali, la cultura. I Talebani come prima cosa distruggono i musei e allontanano l’informazione libera. Purtroppo con i social si è tornati a propagande alimentate da bufale. Bisogna rispettare le regole ferree deontologiche. È chiaro che qui si apre un’altra pagina enorme di editoria non pura, per cui si risponde agli interessi del proprio editore.

Le sue storie sono immaginate, ma partono dalla realtà. Ad esempio La città senza rughe (BookRoad, 2020) e Sotto un cielo di carta (Leone Editore, 2015).

Sono due romanzi del genere distopico, un sottogenere della fantascienza. La distopia è stata impreziosita da opere memorabili di Orwell, Dick, Ray Bradbury. Pochi generi come la distopia consentono di denunciare in modo lucido le storie della società in cui viviamo. Fingendo di posporre tutto in un futuro prossimo, in realtà si criticano le storture della società attuale. Ne “La città senza rughe”, sottolineavo come la società sia incapace di coltivare la memoria e incapace di preservare i più fragili, una società che corre troppo e lascia indietro gli altri. Un problema soprattutto rispetto agli anziani. Un romanzo definito profetico, ma scritto prima della pandemia. Il giornalista ha una sensibilità acuita dall’indagare il presente, in modo anche critico. In realtà è lo sguardo di una persona che aveva gli strumenti e la sensibilità per capire che questa società non era più adatta alle persone deboli. Nel romanzo immagino che gli anziani vengano trasferiti in un grande ospizio che si chiama “vacuna”, termine che in spagnolo significa “vaccino”. Ma io mi riferivo alla “dea Vacuna” che è la divinità del riposo. Insomma una grande metafora del fascismo. Mi diverto a fare romanzi a più strati.

Sorto un cielo di carta si avvicina a Orwell e Bradbury?

In un certo senso. Ho immaginato un regime che abolisce la carta perché tutto sia tracciabile tramite un tablet. La metafora è ovviamente quella dei social network che ci controllano 24 ore su 24. Oggi se parlo con una persona di un’auto, tra due giorni mi ritrovo la pubblicità di quell’auto sul cellulare. Le App ci ascoltano. Di queste cose all’epoca del romanzo non se ne parlava. Le anticipai nel libro.

Quando ha iniziato, si occupava di gialli e noir. Ancora uno sguardo sul sociale?

Il mio primo romanzo era in effetti una sorta di noir. Come anche un racconto pubblicato da Cento Autori, “La bellezza sfregiata”. Poi ho scritto sceneggiature radiofoniche per Rai Radio3 in “La storia in giallo”. Ritengo che il noir possa essere inserito in quella che definisco “narrativa sociale”. Personalmente mi sono inventato un sottogenere, il futurealismo, che va al di là della distopia. A differenza di quest’ultima, infatti, il futurealismo lascia una prospettiva di speranza, parlo del futuro in modo realistico, un futuro prossimo.

Anche ne “Il sole tra le mani” (Leone editore, 2017) c’è un affacciarsi sui giorni nostri.

L’idea trova origine visitando i cimiteri, ma nasce dietro la problematica della solitudine, isole scollegate in un mare in tempesta. Una critica alla società dell’immagine. Il protagonista vuole distruggere tutte le foto che lo riguardano. Siamo in una fase pre-social. Un modo per distruggersi e poter rinascere. Anche qui c’è un gioco metaforico sul mondo.

Tra i personaggi che hanno incrociato il suo percorso, forse la scrittrice e conduttrice televisiva Cinzia Tani è stata tra i più influenti sulla sua scrittura?

Ho seguito un suo corso. Una giornalista Rai ma anche una scrittrice tra le più importanti nel campo del romanzo storico. È stata fondamentale per quello che mi ha insegnato, una persona generosa. Nel 2005, in uno dei tanti periodi di crisi con la mia sposa – cioè la scrittura – Cinzia mi fece una telefonata lunghissima, in cui mi convinse a credere nella mia qualità e nel mio talento. Mi disse che non avrei mai dovuto abbandonare la strada della narrativa.

Perché “Scrittore Ambulante”?

Intanto l’idea nasce dal fatto che io sono paganese, siamo la terra degli ambulanti, gente che andava in giro a vendere le pezze. Ero amico di molti di loro. Volevo così ridare dignità a una categoria che di dignità ne ha da vendere. In secondo luogo, è un progetto culturale. La cultura deve uscire dai luoghi deputati, altrimenti si finisce per parlare e parlarsi sempre addosso o con le stesse persone. La cultura ha l’obbligo etico di uscire fuori dai luoghi predisposti e incontrare le persone. Come scrittore ambulante ho frequentato spiagge, Rsa, case. Presentazioni a domicilio. Vengo io a casa tua. Si sono creati momenti magici. Si instaura un rapporto particolare con piccole riunioni di lettori. Mi sono inventato scrittore ambulante. Nelle Rsa, mi hanno sempre fatto una enorme tenerezza gli anziani. Sarà che i miei genitori mi hanno avuto tardi e ho sempre avuto un grande desiderio di comunicare con loro. Oltre al problema fisico e medico, la vera criticità per queste persone è avere qualcuno con cui parlare. Quando portavo le mie storie a loro, partivo dal mio romanzo e si finiva a parlare di tutto.

Tornando al giornalismo, perché diventa così difficile per i giovani entrare in questo mondo?

Era già difficile all’epoca, devo dire. Ho dovuto fare l’emigrante per avere un posto serio. Il giornalista deve avere una buona retribuzione per essere libero da pressioni, libero dalla tentazione di vendersi. È alla base di qualsiasi argomentazione. Ma attualmente le retribuzioni sono vergognose, soprattutto per i collaboratori. Non va bene per questi ragazzi ai quali è demandata l’esistenza stessa di un giornale. Come Cdr dell’Ansa ci stiamo battendo anche per questo.

Progetti nuovi?

Una raccolta di racconti, alcuni inediti, altri inseriti in antologie. Avevo il desiderio di raccoglierli tutti sotto il titolo “Operette umorali” che fa il verso alle Operette morali di Leopardi. Piccole opere con, appunto, umori e caratteri diversi. Uscirà per BookRoad nel 2022.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Content is protected !!