Il corpo pittorico tra natura, religione e Storia

di Eliana Petrizzi

Tra i temi che prima di tutti e meglio degli altri hanno ossessionato l’uomo dalla sua prima comparsa sulla Terra, c’è sicuramente il tema del corpo. Rappresentato, simbolizzato, trasfigurato o sfigurato, è intorno al corpo dell’uomo, al suo destino e al terrore della sua scomparsa che ruota forse tutta la storia dell’arte. La figura umana è metro di misura per orientarci nel mondo e interrogarci sul nostro rapporto con esso. Ma è soprattutto consolazione, attraverso il riconoscimento di sé, contro la disgregazione di senso cui può condurre la mancanza di riferimenti riconoscibili. È il talismano, la bacchetta del rabdomante, amuleto apotropaico per eccellenza. Lo fu per prima la Venere di Willendorf, una delle più famose statuette paleolitiche, risalente al 23.000-19.000 a. C. La statua si colloca all’interno del culto della Madre Terra e del Femminile. La vulva e il seno, gonfi e pronunciati, rappresentano un auspicio di prosperità. Anche il colore rosso ocra col quale la statuetta è dipinta rimanda al colore archetipico della passione e del sangue mestruale, che annuncia la rinnovata capacità della donna di poter dar seguito alla vita.

Forme protostoriche, certo meno eleganti di quelle espresse da artisti come Policleto e Fidia, che diedero vita a opere caratterizzate da una forma di “naturalismo idealizzato”, segnato cioè da un mirabile equilibrio tra naturalismo e astrazione delle forme. Il corpo dell’uomo come unità di misura della perfezione del creato: un’idea intorno alla quale ruota tutto il Rinascimento, annunciato dalle figure di Piero della Francesca, i cui corpi dipinti esprimono la totalità del divino nella perfezione dell’umano. Mediante la Rivelazione, Dio è sceso tra gli uomini nelle sembianze di un uomo. Da questo momento in poi l’uomo è permeato della perfezione di Dio, come ogni aspetto del Creato. I colori sono mattutini e inconfutabili. Scompare la descrizione del sentimento, per orientare il proprio interesse sull’aspetto geometrico della forma. Le figure geometriche sono strumenti razionali attraverso i quali compiamo la nostra conoscenza delle cose e dello spazio, ma sono soprattutto traduzione visibile della perfezione divina. Rendere geometrica l’immagine del corpo vuol dire che Dio è sceso in essa per renderla a sua somiglianza, inattaccabile ai guasti del tempo e della Storia.

Il Rinascimento però già conteneva in nuce qualche fermento di paturnia contemporanea, se si pensa a un artista come Sandro Botticelli che, privo del supporto della fede in Dio, è agitato da un temperamento che prende forma in un vago essere al di là rispetto alla natura e alla Storia, un temperamento che si identifica con il “furore malinconico” di cui parlava Platone, riferendosi al sentimento generato dalla nostalgia di ciò che si è perduto, e dall’aspirazione verso qualcosa che è impossibile ottenere. I suoi corpi dipinti ammoniscono di tornare indietro, alla mistica ingenuità dei primitivi. Il racconto pittorico è bidimensionale. I volti dei suoi personaggi ci osservano come sospesi di fronte ad uno spettacolo malinconico che resta ignoto a chi osserva, tradendo un linguaggio impossibile o negato. Malgrado la pallida grazia dei lineamenti, le sue figure restano costipate in un contorno nero sottile e rigoroso, che le isola dal mondo e dalla natura, restituendole alla loro originaria indole di monadi. Il corpo dell’uomo non è più il tramite logico tra Dio e la natura, ma un essere misero, tormentato e solo, che patisce le inquietudini religiose del suo tempo e i richiami dell’anima profonda.

Ci si trova esattamente all’opposto di quanto andava realizzando Leonardo Da Vinci: in lui i corpi e le loro forme si confondono le une alle altre per via di una mistica, felice effusione, realizzata attraverso passaggi chiaroscurali sapienti e graduali. La figura umana deve esprimere nella sua forma particolare la struttura generale. La natura è una dimensione in continua metamorfosi, una realtà viva e prorompente nutrita da cicli geologici e stagionali che si avvicendano in un vorticoso susseguirsi di tempi, che trovano proprio nella figura umana il termine ultimo della propria evoluzione, il punto cioè in cui la natura si ferma e si dà al mondo come Cosmo, quiete raggiunta, perfezione epifanica, intima bellezza.

Ma il più avanguardista tra gli antichi fu di certo Michelangelo Buonarroti. Nelle sue figure è la torsione a spirale dei corpi a esprimere il carattere ciclico della mutazione, il nascere di ogni cosa dalla morte della precedente, la febbre dello spirito in pena. Tutti i corpi di Michelangelo, così come appaiono affrescati nella Cappella Sistina, sono colti nell’attimo di compiere uno sforzo immane, che non si realizza però in nessuna azione. Il pathos che promana da queste figure è piuttosto riferito a energie che cercano di emergere, all’aspirazione verso la suprema grandezza, che si paga con la suprema disperazione. E non c’è spiraglio da cui penetri raggio di Grazia in questa attrazione verso l’abisso. Il significato delle immagini del corpo, per la prima volta con Michelangelo, non va più ricercato nella bellezza della sensazione indotta, ma nel processo del loro formarsi, il quale è un processo drammatico, al pari di quello che, nel secolo successivo, portò Caravaggio a evidenziare in maniera dirompente l’inconciliabilità degli opposti di cui si compone l’esistenza. Bagliori angelici guerreggiano contro zone di nero pieno, nel contrasto tra la grazia dell’ideale e il tormento delle vicende terrene, tra la quiete dell’anima e la passione dei corpi, tra lo splendore illusorio della vita e l’orrore della morte.

E oggi? Tra pubblicità, fotografia, cinema e media il corpo – il nudo soprattutto – è diventato il manifesto di una corporeità banalizzata, estranea al senso del tempo, replicata secondo stereotipi che diffondono un erotismo sterile e asettico, in cui infine il corpo, per eccesso di rappresentazione, paradossalmente scompare. Tra i principali cantori del corpo drammatico nella pittura contemporanea è necessario menzionare Lucian Freud. Nel grande pittore tedesco la pennellata pastosa e tremolante trasuda di tensione e di sconforto, racchiudendo in corpi deformi i pensieri di personaggi cui è stata tolta la maschera necessaria nella vita di tutti i giorni. Sono ritratti crudi, disturbanti, in cui il vuoto mentale si traduce in una posa distorta. Il corpo è opulento o emaciato, i genitali brutalmente esibiti. Ogni tratto ha dello sgradevole. La pesantezza di queste figure disarmate, con la pelle avvizzita e i seni cadenti descrive, di fatto, animi spossati, la triste realtà di uomini e donne che sembrano aver vissuto un’esistenza penosa, sopraffatta dalla noia. Sono ritratti di familiari, amici, amanti, persone coinvolte direttamente o indirettamente nell’esistenza dell’artista e delle quali egli coglie il lato più soffocante, doloroso e impronunciabile.

Con una disturbante capacità di penetrazione psicologica, Freud ha ritratto, più che l’impietosa evidenza della carne esposta, la nudità emotiva. È una pittura che va oltre il realismo, che non racconta una storia, ma in cui si avverte un’avvilente tristezza, una realtà tragica e tuttavia sensuale, una disperata solitudine, l’incapacità di risollevarsi e la stanchezza di stare al mondo. In perfetto accordo col mood del contemporaneo tout court: tempo storico votato alla disgregazione apparentemente senza speranza, alla denuncia compiaciuta del brutto, dell’irrimediabile, al racconto di ciò che si perde e che non resta. Ma questa è un’altra storia.

 

 

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