Berlinale 2021, giorno 3. Il Concorso entra nella terra dell’incanto

Petite Maman di Céline Sciamma e il georgiano What Do We See When We Look at the Sky?, opera seconda di Alexandre Koberidze, segnano una doppia incursione del Concorso berlinese nei territori del fantastico e del surreale, sebbene le due opere abbiano ambizioni ed esiti decisamente diversi, a partire dal mimutaggio. Con il suo quinto lungometraggio, Sciamma torna a esplorare il mondo dei bambini, già oggetto di Tomboy, a oggi probabilmente il suo film più famoso e popolare, scegliendo di rinunciare sia all’aspro realismo di opere come Diamante nero che al melodramma in costume di Ritratto della giovane in fiamme, recentemente premiato al Festival di Cannes. Petite Maman ha in apparenza un respiro minore, si presenta con una durata ridotta a poco più di settanta minuti. Tuttavia, questo non non gli impedisce di raggiungere risultati altrettanto toccanti e convincenti del resto della filmografia della talentuosa autrice francese.

La vicenda ruota intorno a Nelly, una bambina di otto anni, e prende inizio nel giorno della morte della nonna materna. Suo padre e sua madre, Marion, decidono di restare qualche giorno nella casa in cui la madre di Nelly ha trascorso la sua infanzia. La bambina esplora i boschi intorno all’abitazione, all’interno dei quali Marion, un tempo, costruì una capanna fatta di tronchi, rami e foglie. Durante le sue peregrinazioni, Nelly fa amicizia con una bambina di nome Marion, che altri non è che sua madre da piccola. Sciamma riesce a trarre il massimo da questa storia di estrema semplicità e a distendere con grande delicatezza questo tenue filo narrativo, dirigendo molto bene le due piccole protagoniste, le gemelle Joséphine e Gabrielle Sanz, la cui presenza buca lo schermo, capaci di conquistarsi immediatamente la simpatia dello spettatore.

Petite Maman si riduce perlopiù a una successione di giochi infantili, eppure la materia è estremamente viva, e si fa sottilmente incandescente quando Nelly rivela a Marion il suo futuro di giovane madre, la sua costante inquietudine, e a rassicurare se stessa del grande affetto provato per lei dalla madre che, intanto, nel tempo presente, è sparita lasciando Nelly in compagnia del padre. Céline Sciamma si conferma ancora una volta regista e sceneggiatrice intelligente e attenta, straordinariamente sensibile nel descrivere l’età della crescita, il periodo pre-puberale, come in questo caso, o adolescenziale, come nei suoi film precedenti. Da ricordare, a questo proposito, che Sciamma è anche autrice degli script di Quando hai 17 anni di André TéchinéLa mia vita da zucchina di Claude Barras, due opere che esplorano con consapevolezza, profondità e realismo i difficili anni della maturazione dell’individuo. Con quest’opera delicata ma non fragile, e di grande compattezza, Sciamma si candida certamente a un premio importante nel palmarès che verrà reso noto nei prossimi giorni.

La medesima leggerezza del film di Sciamma è rintracciabile anche in What Do We See When We Look at the Sky?. Koberidze prende come spunto il classico boy meets girl, l’incontro di due giovani, Lisa e Giorgi, che si danno appuntamento l’indomani in un bar, ma scompagina ben presto le carte per tracciare un grazioso ritratto di Kutaisi, seconda città più popolosa della Georgia, dopo la capitale Tbilisi, e dei suoi abitanti nei giorni in cui si sta svolgendo un campionato mondiale di calcio, vinto dall’Argentina di Messi, e quindi storicamente mai esistito. Il regista sceglie di dare alla storia un taglio surreale mostrando un tubo di scarico e una videocamera di sorveglianza capaci di lanciare messaggi e maledizioni, a causa di una delle quali i due giovani, nel giorno dell’appuntamento, si risvegliano nei propri letti con due corpi completamente mutati che impediranno loro, dunque, di riconoscersi.

Inoltre, Koberidze inserisce nella narrazione altri elementi che allontanano costantemente da quella che dovrebbe essere la storia principale: una piccola troupe cinematografica alla ricerca di sei coppie di innamorati per un film da girare, un barista generoso con scarso fiuto per gli affari, il tema del calcio che, oltre al succitato mondiale, vede gruppi di bambini e bambine giocare in un  campetto (c’è spazio anche per una sequenza girata al ritmo di Estate italiana di Gianna Nannini e Edoardo Bennato, che alimenta l’atmosfera mundial) e che appassiona persino i cani, insegnanti di xilofono capaci di guarire dal malocchio, una coppia di buontemponi che si divertono a deridere i passanti legando una banconota a una lenza per la pesca. Siamo, quindi, di fronte a contine digressioni in una sorta di inseguimento, da parte dell’autore, dell’atmosfera del suo conterraneo Otar Ioseliani e delle opere del finlandese Aki Kaurismäki. Nel complesso, il film non manca di una certa grazia e levità che restituiscono, in certi momenti, un’atmosfera sublime. C’è da dire, però, che i 150 minuti della sua durata non sono tutti necessari e la natura ondivaga della narrazione finisce per scadere talvolta nella prolissità. Insomma, la carne al fuoco sembra davvero troppa, e non tutti i microepisodi e i personaggi di quello che è, in definitiva, un film corale, hanno la stessa forza ed efficacia.

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