Un rimedio per il pubblico “escluso”

di Eliana Petrizzi 

Nei musei d’arte antica e moderna, accanto a ciascuna opera una targa indica il nome dell’autore, il titolo del lavoro, la tecnica, l’anno e poco altro; e il visitatore sosta a lungo dinanzi ai capolavori del passato. Nelle sale delle mostre d’arte contemporanea, invece, i muri sono di solito pieni di lunghe scritte esplicative, o di video in cui l’artista tenta di motivare il suo lavoro. Ed infine eccolo il lavoro spiegato, che pochi o nessuno capiscono lo stesso, davanti al quale il visitatore medio si trattiene pochi secondi, ricacciato dal senso di vuoto, di perplessità, di delusione e di sconforto, se non di autentico disgusto. È chiaro che ognuno fa la propria esperienza e che ogni linguaggio merita rispetto, ma è innegabile che l’arte contemporanea sia troppe volte un affare riservato a curatori vanitosi, galleristi, collezionisti pilotati da ideatori di bluff a tavolino, fondi d’investimento e non meglio precisate operazioni di mercato, dove gli artisti sono ora superstar inarrivabili, ora vittime di un meccanismo da cui vengono sfruttati e presto abbandonati. Unico escluso: il pubblico.

Sol Le Witt scriveva: “L’arte concettuale è buona solo quando l’idea è buona.” Ma in quante opere esiste oggi veramente un’idea valida? L’onnipresenza di banalità, cattivo gusto e provocazioni si maschera dietro l’etichetta concettuale, senza la quale in molti casi le opere apparirebbero per quello che sono: bancarotta estetica ed intellettuale. Il nostro tempo sottoscrive patti di fedeltà con ciò che manca e che resta in bilico, incapace sia di individualità che di interdipendenza. Alle opere classiche sono subentrati linguaggi variegati, che hanno in comune la necessità di cogliere contingenza, caos ed incalcolabile come parte del calcolo. Il ‘non importa che cosa’ assume una dimensione di senso assoluto. L’opera è ciò che accade e che si lascia accadere; magro traguardo di chi, persa ogni capacità di trascendenza, si è ridotto al compiacimento delle proprie tare.

Si deve a Duchamp la figura dell’artista non più artigiano capace di utilizzare pittura, scultura e disegno, ma demiurgo che con la sola idea decreta opera d’arte la pura esistenza di qualcosa. La questione sollevata da Duchamp rispetto ai confini su cosa sia o non sia arte è ancora argomento di discussione. Di fatto, l’opera oggi è soprattutto un processo mentale. Se però accettiamo che arte sia tutto ciò che gli uomini definiscono tale, dovremo pure abituarci all’idea della grande beffa, ricordando che la parola ‘arte’ condivide l’etimo proprio con ‘artificio’. Qualcosa che si avvicina ad un concetto tradizionale di arte è nel termine greco téchne, che indica l’abilità a realizzare qualcosa, ma che riguarda però più l’artigiano, che il genio o l’artista acclamati dai mercati. A proposito di artisti e artigiani, esiste oggi una reale differenza tra loro? D’istinto direi che l’artigiano è la persona educata alla manualità, che trasforma un materiale in un prodotto, di solito vocato a una funzione pratica d’uso e ad una riproducibilità. L’artista, invece, è fondamentalmente un ideatore, un creatore che interpreta un determinato saper fare tramite le proprie emozioni. Le sue idee possono toccare tutti i campi culturali, dai più tecnici ai più immateriali. È una persona che osserva ogni cosa cogliendone i dettagli, esaltando il quotidiano e reinterpretandolo in modo da trasformarlo in qualcosa di completamente altro da sé. Di certo, oggi il confine tra arte ed artigianato si è fatto labile. Le arti decorative possono essere innovative, così come l’arte può finire in un sistema di produzione ripetitiva ben al di sotto dell’artigianato. Una buona soluzione sarebbe cercare di fare al meglio le cose sviluppando idee potenti, a riuscirci. Converrebbe in ogni caso, piuttosto che invocare l’arte di un tempo, maturare la consapevolezza che l’arte ha semplicemente cambiato natura, com’è giusto che sia. Riconoscere il cambiamento facendone motivo di crescita è la sola azione che vale la pena intraprendere.

In passato, l’arte godeva di una sua forma di autonomia quasi sacrale, legata anche al pregio tecnico dell’esecuzione da parte dell’artista e della sua bottega. In seguito, la libertà d’espressione ha prevalso sulla tecnica e persino sui contenuti, permettendo sia la creazione di capolavori immensi che una pletora di abusi ed arbìtri. Alle scuole di un tempo si sono sostituiti oggi sistemi di potere fondati sul mercato e su dinamiche economiche, che hanno condotto l’arte verso una mercificazione devastante. Mai come oggi, infatti, il valore coincide con il prezzo, per non dire anzi che il prezzo è troppe volte il valore. In questo modo, le opere d’arte diventano strumenti finanziari. Anziché espressione di una sincera ricerca estetica e/o intellettuale, l’arte è diventata una merce dalla quale il sistema cerca di spremere il massimo profitto. L’acquisto dell’opera di un artista affermato somiglia ad un investimento in borsa, dove i collezionisti diventano gli speculatori, e il pubblico – sempre più disorientato e deluso – è sottoposto a un sistematico lavaggio del cervello, che tende ad accreditare un’arte troppo spesso banale, cinica e ripetitiva. A contrastare questo andazzo c’è l’esercito dei difensori della tradizione. Il dibattito tra sostenitori del contemporaneo e nostalgici del passato è vecchio e duro a risolversi. Certo, c’erano dei limiti pure nell’arte di allora. La soggettività di visione dell’artista ha infranto molte cosmogonie, per concentrarsi sui riflessi dell’Io nel mondo proiettati su una moltitudine di schegge infrante. Il caleidoscopio è stato ed è tuttora interessante, ma ciò non toglie che la nostalgia non sia né un peccato né un limite, e che guardare all’arte del passato può servire spesso a comprendere meglio chi siamo.

Oggi la creatività è un diritto basilare di ciascuno, un po’come il diritto al voto o alla libertà d’espressione. Ma questo comporta pure qualche rischio e molta confusione. È difficile comprendere il nostro tempo. Ma è pure vero che ogni cosa rappresenta un aspetto vivo del mondo, che merita di essere raccontato e vissuto. Direi anzi che non condividerlo non solo non toglie nulla al suo diritto di esistere, ma sottrae forse qualcosa a chi si rifiuta di accettarlo. Per questa ragione, alla fine dei conti è meglio spendersi in esercizi di curiosità soprattutto verso ciò che non comprendiamo, trovando ogni cosa utile, e a suo modo affascinante.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Content is protected !!