Nowhere fast

di Eliana Petrizzi

Nel paese in cui vivo ci sono così pochi abitanti che la sera posso sedermi al centro della strada e tagliarmi le unghie dei piedi. È mia abitudine non tenere discorsi, né dare spiegazioni su quello che faccio. Non mi sono mai innamorato e, almeno in questo, sono sempre stato ricambiato. Da ragazzo frequentavo un Istituto che mi avrebbe garantito in seguito il mio attuale non futuro. A scuola, dabbenaggine dei compagni, irragionevolezza degli scioperi, gli arabeschi inestricabili della mediocrità. Il fatto di non avere né un lavoro né voglia di cercarlo mi porta a dormire molto. Niente feste e nessuna cerimonia; non vado a nessun funerale per assicurarmi deserto il mio. Le ore che passano sono sangue che crolla da una bestia appesa. Dopo pranzo, di nuovo a letto. In cucina, mia madre dice a mio padre: «Sei la merda che si attacca al cesso. Non voglio sentirti parlare. Torna sotto terra. I morti non parlano». Suona il telefono: non ci sono per nessuno. Esco: campi battuti, una fabbrica, un fiume viola, qualcuno che fischia. Irreprensibile sciocchezza della gente in strada: mi accorgo che banale non vuol dire poco importante ma, molto spesso, fondamentale. Mi faccio una canna tirando il fumo come un bacio. Nel bus verso casa, gente che non parla guarda dal finestrino cose che passano.

Il mio migliore amico è il “guardatore di fiumi”, un ragazzo che si ferma a fissare corsi d’acqua nei paraggi. A ora di cena, torna a casa ciondolandosi con un movimento energico. Teniamo campionati di sguardo fisso sul nulla, con premi che consistono di solito in chi deve riaccompagnare l’altro a casa dietro il sellino della propria bici.

Forse dovrei frequentare gli altri, ma il pensiero mi ripugna. Gli altri non sono che una folla di microbi che, incapaci di esistere, vengono esistiti chi dalla propria brutalità, chi dalla propria ignavia. Parlare non serve: delle cose passate è inutile, di quelle future è stupido, perché poi di solito non capitano. Un amico blatera dei fatti suoi, chiedendomi favori che non ricambia. Dove c’è gente, tutto si svolge democraticamente; il mio dramma potrebbe essere condiviso, peggio ancora giustificato. Meglio tenerlo in disparte, dove ogni giorno posso crederlo solo mio, e immenso. Lungo le strade vedo pattume fisiognomico, tra cespugli di palazzi con frutti marci e spine. Davanti alle vetrine, l’idiota archetipico parla di tutto ciò che non occorre sapere. Coppie infelici e serene, giovani sfaldati come paesaggi nell’afa. Saluto l’interlocutore accidentale, che col suo essere minuscolo si fa presto ingombrante. I tacchi dei miei stivali segnano il passo con un colpo secco. Non penso a niente, nella spensieratezza che si tiene nelle file dietro, appresso a un funerale.

Arrivato in paese mi fermo al centro della via. Guardando la mia casa, mi chiedo se ci abito proprio io e se quella è veramente la mia casa, con luci fioche e voci basse, dietro finestre da cui fuggono silenziose le piccole miserie dell’amore.

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