Il foto-turista, sociologia del selfie

di Eliana Petrizzi

Il primo selfie della storia, realizzato da Robert Cornelius nel 1839.

Quando sono in giro per il mondo mi accorgo che, dopo gli incivili, non esiste categoria più fastidiosa del foto-turista. Questo genere di individuo viaggia soltanto ed esclusivamente per saziare la vanità del proprio obiettivo e per mostrare agli altri i propri scatti, ovviamente su Facebook o su Instagram. A conti fatti, per il foto-turista nulla esiste se non può essere fotografato. Se da quella veduta o da quel volto non riuscirà a ottenere una buona foto, di colpo i soggetti smetteranno di essere degni persino di essere guardati. Ma scattare senza aver prima osservato il soggetto vuol dire non saper istaurare con lui nessun rapporto d’amore, e la foto infine questo lo dice chiaro a tutti. La foto che pubblicherà sui social alla fine sarà pure tecnicamente buona, ma resterà sorda, muta, esanime. Di un paesaggio, di un volto, lo scatto avrà colto la superficie di una pelle che non parla a nessuno. Un viaggio prima, una fotografia poi sono invece un atto d’amore totale e gratuito verso i luoghi e i popoli che si visitano. Come si ama qualcuno anche per le sue debolezze e per le cose che non ci piacciono, così in un viaggio bisogna stringere un patto di cuore pure con la miseria, con la noia, con l’apparente anonimia di un luogo, se non addirittura con lo squallore e lo sfacelo. Serve pure a tornare dove si è nati con una coscienza differente, con più rispetto per gesti di cura verso cose e persone alle quali normalmente non si presta alcuna attenzione.

Gioconda - WikipediaLa considerazione non cambia se si passa dal viaggio all’opera d’arte. È un fenomeno che riscontro da anni sia nei musei che quando guido i ragazzi nella visita di mostre. Quando sono stata per la prima volta al Louvre, ero già scettica di mio a vedere la Gioconda, perché la fama iperbolica di cui gode a livello mondiale me l’ha sempre resa piuttosto antipatica. Ma devo ammettere che, quando l’ho vista, ho provato nei suoi riguardi una sorta di commossa pietà. Il dipinto era custodito (e lo è tuttora) dietro un cristallo che tiene a debita distanza i visitatori i quali, in gruppi di parecchie decine, le si assiepano accanto o nei paraggi con l‘unico obiettivo di scattare un selfie col quadro sullo sfondo. In primo piano il faccione ebete del fotografo; alle sue spalle, sfocatissimo e distante, il capolavoro per cui si erano affrontati la spesa e il viaggio. Povera Monna Lisa, che mai avrebbe pensato di trovarsi al centro di una platea così gremita, interessata a tutto fuorché allo spettacolo principale. Poche volte sono rimasta disgustata e offesa da una scena simile. Ma il fenomeno è quanto mai variegato. In spiaggia, invece di fare il bagno si scattano foto alla trasparenza dell’acqua, con un cellulare tenuto sempre a tracolla o comunque addosso, a mo’ di catetere. Durante un concerto, i selfie-addicted si arrampicano sui muri per rientrare nell’inquadratura col cantante sullo sfondo. Alla presentazione di una mostra vale lo scatto rubato accanto a chi conta nella serata o ai dipinti che non si sono neppure notati. E la foto si deve fare perché senza di essa niente avrà mai avuto veramente luogo. Ci saremo accaniti a documentare un ridicolo “io c’ero”, ma alla fine il bagno non l’abbiamo fatto, il concerto non l’abbiamo ascoltato, il quadro non l’abbiamo visto. L’irripetibile del momento è passato come un treno di cui avevamo pure pagato il biglietto, ma su cui non siamo mai saliti.

rullino fotografico – Il TalePianoUn dato è certo: è scioccante quanto si sia diventati incapaci di vivere senza cellulari e macchine fotografiche. La foto, peggio ancora il selfie, è diventato l’unico certificato di esistenza di cose e persone, utile a garantirne la concretezza, altre volte a creare una realtà parallela in cui quelle stesse cose e persone possano ritenersi migliori di quanto non siano in realtà. Le piattaforme social hanno cambiato radicalmente il modo di percepire ciò che viviamo. Il senso di quasi tutti i nostri post è di vedere e rivedere noi stessi, più che di farci vedere dagli altri, cercando di capire attraverso questo strumento onnipresente chi siamo, come appariamo o come vorremmo apparire. Un social è la versione 3.0 dello specchio da toletta o delle polaroid del secolo scorso. Che poi la nostra immagine possa interessare a qualcuno è solo un gradito effetto collaterale. Il post serve a noi, alle nostre fragilità e al nostro Ego malato. È il verme solitario che condanna all’appetito perpetuo. L’anonimato dei più, un tempo normalità quasi per tutti, viene oggi avvertito come la peggiore delle disgrazie, una sorta di suicidio sociale. Cellulari e macchine fotografiche sono diventati a tutti gli effetti non protesi, ma surrogati dell’occhio. Si scatta una foto ancor prima di aver guardato. L’elaborazione del dato visivo non è più affidata né alla memoria personale né a un processo di consapevolezza culturale di tipo critico o puramente estetico, ma solo alla foto postata su un social e a stento rivista sul proprio display. Il populismo culturale delle masse gioca sulla stanchezza intellettuale dei singoli e sulla loro distrazione, su una crescente tendenza alla noia per eccesso di stimoli, oltre che alla destrutturazione, semplificazione e banalizzazione di ogni messaggio, che garantiscono ai contenuti di raggiungere con facilità platee molto vaste. Insomma, tutto in una volta e niente a lungo andare.

A me pare, questa, una forma di miopia molto grave. Personalmente, e da pittrice, trovo ci siano cose che non possono essere né fotografate né dipinte e nemmeno scritte. Rifiutando la precarietà di ogni messa a fuoco, di ogni traduzione e di ogni commento, certo non possono essere condivise, ma scendono in profondità dentro chi le avrà vissute, a farne un distillato che arricchirà il proprio senso della bellezza, dell’umanità, del sentimento misterioso dell’essere al mondo. In fondo, è solo questo l’insegnamento della bellezza, cui l’occhio prima, una foto dopo, dovrebbero votarsi.

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