Che cosa sollecita in una civiltà la parola emergenza?

Adesso che qualcosa di realmente virale è venuto a farci visita, qualcosa che per molte generazioni è senza precedenti ha dato luogo a procedere a un nuovo genere di coprifuoco. Per fortuna, un genere molto genere. Per una volta, tutta la retorica del collettivo può darsi seguito da ferma, senza mobilitazioni, senza attivismi. Stavolta, l’ozio è parzialmente autorizzato. Il caso ha voluto che mentre in passato ad altre generazioni sono stati chiesti ben altri sacrifici, per noi la rinuncia è arrivata col privilegio della comodità. Il rispetto e l’aiuto a chi si sta dando davvero da fare per affrontare l’epidemia passano per una confortante contemplazione. Soprattutto, al cospetto di un avvenimento che non ferma i conflitti, le deportazioni e le fughe di massa. Altrove, ancora una volta, la tragedia si sommerà ad altre tragedie.

Attenzione, chiaramente, a non confondersi con quello che nemmeno questo momento, ancora più per fortuna, non è in grado di farci fare esperienza diretta di situazioni che restano allo stadio di consultazione storica punto e basta. Eppure, mentre chi ne è rimasto vittima aumenta un numero di senza nomi, lo scivolamento delle sensibilità riversa un liquido all’acqua e olio.

Una cosa, tra le tante, anzi tutte, che predica una cautela discreta e silenziosa non dovrebbe sfuggire. L’emergenza per il coronavirus sembra avere a che fare con i fondamenti dell’universo. Lo spazio, la velocità, il tempo. Stando a quanto ci dicono, la pericolosità del contagio non è nell’entità del virus, ma nella sua estrema facilità a essere contratto da chi ci è vicini. E, almeno in Italia, gli strumenti per contrastare l’espandersi di un’epidemia che sarebbe pericolosa soprattutto per chi è già debole non sono sufficienti. Non possiamo permettercela. Che paradosso scoprire che il tempo trattenuto da un decreto governativo servirà a qualcosa proprio perché non sarà impiegato altrove, lontano, laddove ognuno di noi spesso s’illude di rincorrere scopi utili a chissà cosa. Questa volta, lo spazio e il tempo saranno messi al servizio della velocità per rallentarla, non per aumentarla. Una manovra inversa, contro capitalistica. E la sorte ha voluto che questa necessità sorgesse per andare incontro ai più deboli. Un freno drastico per scongiurare – pare si stia tentando questo – i più inquietanti e distopici risvolti di una vicenda che nessuno può ancora decifrare con precisione.

Davanti a tutto questo, ancora una volta, si è fatta viva una parte di società che ha confuso la spensieratezza con il menefreghismo, l’urgenza con l’egoismo e la cautela col panico. Adesso, però, sarebbe ingiusto quanto superficiale avventarsi sul tavolo delle analisi per darsi al computo morale delle cose, delle paure, delle reazioni. Di tanto in tanto, qualche linea di luce filtra dalla finestra, ma col gonfiore di nuvole nerissime all’orizzonte. Pertanto, il compiuto non ha ancora mostrato il suo volto.

Tuttavia, questi giorni mi hanno fatto venire in mente un frammento di Cuore, una prosa pubblicata sugli Scritti corsari e uscita col titolo Non aver paura di avere un cuore sul Corriere della Sera. Pier Paolo Pasolini nel testo citato si sofferma ulteriormente sul tema dell’aborto, discutendone e contestandone la piena e infallibile necessità. A un certo punto, però, una parte di questo testo assume una valenza più ampia, riconducendo alcuni significati alla nuova universalità a cui gli italiani del dopoguerra si sono avviati, raffinando, di generazione in generazione, una sorta di sentimento a freddo “senza cuore”. Una lucida avvisaglia su una società che non sembra più in grado di mostrare premura per le cose più deboli, rischiando, così, di derubricarle a inutili.

“Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e anti-sentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di cui il potere dispone. Come polli d’allevamento, gli italiani hanno indi accettato la sacralità, non nominata della merce e del suo consumo. In questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti, non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere. Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene. Che cos’è infatti che rende attuabili – in concreto, nei gesti, nell’esecuzione – le stragi politiche dopo che sono state concepite? È terribilmente ovvio: la mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento della propria.” Pier Paolo Pasolini, Cuore – Scritti corsari 

In immagine, Il colosso, di Francisco Goya o Asensio Julià

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